di Tommaso Esposito
Sembra strano, ma è buono a sapersi: Salerno è stata la capitale delle migliori piantagioni di riso del meridione per un periodo lunghissimo.
Si hanno notizie certe della coltivazioni di questa pianta alimentare a partire dal 1500 e fino a tutto il 1800.
Sono innanzitutto i poeti quelli che cantano le lodi del riso salernitano a cominciare da Giambattista del Tufo: “E d’estate e d’inverno farro e rise infinite da Salierno” e dallo Sgruttendio che, nella sua Tiorba a Taccone del 1646, così declama: “Li vruoccole spicate daie lo vierno, cossì la Primma Vera, e nce daie tu la State vroccolille a buone cchiù, chiù ghianche de li rise de Salierno”.
D’altra parte anche Bartolomeo Scappi, il primo grande cuoco del Rinascimento, conosceva questo riso e lo consigliava in una delle sue ricette di minestra con brodo di pollo: “ Piglisi il riso Milanese o di Salerno che sono i migliori, lavisi con più acque tiepide, lascisi stare nell’ultima acqua tiepida per un hora e pongasi in vaso di terra invetrato o di rame bene stagnato, con brodo di pollo di vitella”.
Antonio Latini lo conferma un secolo dopo nel suo trattato di cucina, Lo scalco alla moderna, del 1692: “ Principato Citra. In questa provincia si ritrova ogni sorte di robba. Salerno produce li più famosi risi e in gran abbondanza.
E questo accadeva mentre i napoletani in quel tempo erano, prima di diventare mangiamaccheroni, considerati tutti quanti dei mangiafoglia.
Lo attestano, ad esempio, il Pulci quando declama rivolgendosi al Magnifico: “Chi levassi la foglia, il maglio e ‘l loco a questi minchiattar napoletani, o traessi dal seggio i capovani, parrebbero salamandre fuori dal fuoco!” e il Perrucci ne l’Agnano Zeffonato: “Chisto portava li Napolitane, che de le foglie fanno gran strapazzo. A la bannera portano no mazzo de vruoccole, e sta scritto: ‘Ntra la panza haggio de la vettoria la speranza!”
Nel 1800 è il Puoti che precisa nel suo dizionario l’aspetto singolare riguardante il nome della pianta, e rise, sempre declinato al plurale: “Risi, ché da noi si usa sempre al plurale. Pianta che si coltiva ne’ luoghi umidi e paludosi de’ paesi caldi, il cui frutto detto da noi pure risi si mangia in minestra o in altre guise.”
Anche il D’Ambra si sofferma su questa singolarità e, specificando pure alcune differenze merceologiche del prodotto, scrive: “Rise. Sostantivo plurale. Riso sciveto: riso brillato. Riso spuorco: riso vestito. Coccola de riso: guscio del riso.”
Fuori del Principato Citra è Castellammare che viene indicata come area ricca di risaie: “Il riso si coltivava un tempo presso Castellammare, dove son tanti anni fa, fu sperimentato che la varietà detta riso secco o cinese vi faceva bene.”
Ma come fin qui fosse giunto è difficile a dirsi. Il riso si sa che verosimilmente abbia avuto origine in Indonesia e si sia diffuso in Estremo Oriente e nel Sud Est asiatico. I greci lo chiamarono rizon. Fu conosciuto poi dai Romani, che però lo utilizzarono come spezia e medicamento piuttosto che come cibo.
Gli Arabi apprezzavano molto l’ arruz e non disdegnarono di prepararlo lesso, aromatizzato alla cannella e come accompagnamento delle carni di pollo e di montone.
I Siciliani e gli Spagnoli conobbero il riso proprio dai conquistatori arabi. E’ allora probabile che con la riunificazione dei Regni di Sicilia e di Napoli, avvenuta a partire dal 1450 per opera degli Aragonesi, la coltivazione nelle risaie abbia avuto un impulso tutto particolare, seppure di gran lunga inferiore a quello tipico del Nord Italia, dove i terreni erano largamente più acquitrinosi.
Cosicché, soltanto dove le campagne avevano una predisposizione paludosa, come era nei territori estremi del Principato di Salerno verso Sibari, o apparivano così ricche di acque, come era nei pressi di Castellammare, alle distese di cavoli, di broccoli e di torzelle si affiancarono le risaie.
D’altra parte la storia gastronomica del Sud si è ampiamente distinta per la fabbricazione della pasta e dei maccheroni a differenza di quella del Nord che ha prediletto il mais granturco e il riso.
Quindi è un fatto veramente singolare che per alcuni secoli anche una parte del Sud abbia contribuito alla diffusione di un alimento non ampiamente apprezzato perché particolarmente difficile da coltivare e produrre, e quindi particolarmente costoso rispetto al grano e alle verdure, e soprattutto perché ritenuto a lungo un cibo per malati e convalescenti. “ Il riso – scriveva ancora il De Renzi nella sua indagine sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli del 1863- non è adoperato dal popolo minuto per due ragioni: la prima è che il suo prezzo supera quello di tutte le paste ed ancora dei maccheroni, laonde non v’è persona che non preferisca questi ultimi; la seconda è che il riso ha sempre bisogno di condimento e quindi di un’altra spesa, poiché fatto bollire in acqua semplice senza formaggio è ristucchevole molto più di tutte le specie di paste cotte nella stessa guisa.”
Eppure accadde che le mense dei ricchi e dei nobili divennero sempre più esigenti e che i cuochi di palazzo dovessero sempre più industriarsi per la ricerca di nuove e stimolanti prelibatezze, particolarmente quelle provenenti dall’ Oriente, da sottoporre al palato aristocratico così attento e sofisticato.
Non a caso le prime ricette di riso descritte da Cristofaro da Messisburgo a metà 1500 nei suoi Banchetti sono soprannominate Alla Turca con lo zafferano, mentre quelle dello stesso Scappi, che sappiamo conosceva il riso salernitano, son dette alla moda di Damasco.
Bisogna aspettare il 1700 per cominciare a gustare minestre e risotti che non eccedessero nell’uso di spezie e di zucchero.
Cominciano a comparire sulla tavola le frittelle e gli gnocchi preparati con farina di riso, le minestre di riso e legumi. Scrive Vincenzo Corrado, il più famoso cuoco di corte del settecento: “Del riso se ne fa grandissimo uso. Ridotto in farina e cotto con latte se ne fanno frittelle; cotto con latte butirro e parmigiano se ne fa pulenta. Del riso intero se ne fa potaggio in brodo di carne, condito con gialli d’uova, parmigiano e scervellato. Se ne fanno potaggi di magro con sugo di gambari o pesci o pure con latte di mandorle.”
Ma soprattutto compare il grande Sartù, la grande leccornia del palato che il D’Auria si limita a descrivere nel suo dizionario come: ”torta di riso al forno, con mozzarella, fegatini di pollo, uova sode, ecc.”
E che, invece, senza tema di smentita alcuna, può essere definito, come hanno sostenuto Mario Stefanile e Leyla Mancusi Sorrentino uno dei capolavori della cucina napoletana.
Le prime ricette di questo piatto sono proprio del Corrado, che lo chiama Sortù, dell’anonimo M.F. redattore della Cucina Casereccia, e di Ippolito Cavalcanti nel 1800. Pietanza di gala, sontuosa, ricca di ingredienti e quindi di sapori e di profumi. Tipico della festa e della ricorrenza importante e per questo inimitabile, irraggiungibile, non riproducibile in una versione povera e scarna di ingredienti.
Non a caso, forse, per le bocche e i palati del popolo furono pensate le granate napoletane e le arancine siciliane di riso, pure esse buone, saporite, gustose, ma a malapena ripiene di un ragù di carne macinata e di piselli. E basta.
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