Fiano in legno? Dopo il post di stamane riceviamo e volentieri pubblichiamo
Caro Luciano,
rinnovo in pubblico l’apprezzamento espresso in privato per un post di grande interesse. Gli spunti sono tanti e ci tengo a dire la mia sinteticamente (ok, fatti una risata… :-)
Mi piace prima di tutto l’approccio “laico” all’argomento, che a mio avviso resta l’unico possibile e credibile se si vuole raccontare il mondo del vino in tutte le sue sfaccettature. Lo sai come la penso: certe “battaglie” sono state e sono comprensibili, e forse necessarie, alla luce di una precisa stagione produttiva e comunicativa per molti versi squilibrata, dopata, appiattita, con tutto il suo portato di sopravvalutazioni e plastica da una parte e, dall’altra, di pigrizia e sottovalutazioni.
Ma penso anche che la vera dimensione geografica e temporale del vino sia talmente ampia e complessa da suggerire perlomeno un po’ di prudenza e di umiltà prima di affossare definitivamente qualche concetto demodé sostituendolo coi suoi contrari. Specialmente quando il j’accuse viene sistematicamente decontestualizzato e si affilano le penne per sommari processi a generiche barriques, malolattiche, gradazioni alcoliche, annate calde, opulenze, varietà alloctone e via discorrendo.
Non c’è dubbio che il legno sia uno dei grandi “imputati” di questa fase critica, specialmente quando si parla di rovere piccolo e nuovo. Strano davvero il suo destino: da “re mida” capace di trasformare qualsiasi liquido in etichetta premium a demone-simbolo dell’omologazione. Mentre sui rossi, però, anche il più radicale dei neo-talebani è costretto ad ammettere che un grand cru di Borgogna in acciaio o botte grande non l’ha mai bevuto, il bianco in legno (specialmente se italiano) è ormai percepito da quella nicchia rumorosa, scrivente, spendente e molto spesso competente come un vero e proprio affronto, zavorra assolutamente non necessaria nella dinamica di freschezza, sapore e vera mineralità che si richiede al grande vino di territorio.
Ora, io credo che in buona misura le cose stiano effettivamente così. Mi spiego meglio: non per il legno in sé, ma per l’uso che ne è stato fatto finora da Bolzano a Pantelleria. Non basta qualche sorprendente versione di Cervaro o Lowengang di Lageder o Gaja & Rey per mettere in crisi la convinzione diffusa (ed è anche la mia) che il meglio della produzione bianchista italica affondi le radici lontano dalla famigerata botticella da 225 litri, leggi Valentini, Villa Bucci, Calvarino, Mirum, Kofererhof, Pietramarina, Ad Armando di Tabarrini, e diverse altre decine (e mentre lo scrivo riaffiora nitido a contraddirmi il ricordo del Fiorano Semillon ’71, di gran lunga il miglior bianco italiano mai bevuto in vita mia).
Non sono un vigneron né un enologo e sarei perlomeno ingenuo ad avventurarmi in analisi tecniche, ma l’impressione totalmente empirica è quella di un percorso di ricerca solo parzialmente avviato da noi per quel che riguarda la scelta dei legni e delle tostature, nonché le loro modalità di utilizzo. Ma soprattutto in diversi casi mi sembra che manchino progetti che dalla vigna si muovano in funzione di un bianco “da invecchiamento”, per il quale si prevedano tappe a contatto col legno. Senza trascurare i fattori ambientali e le tante cantine italiane dove barriques e affini vengono allocate in luoghi non certo ideali per condizioni di temperatura, umidità, correnti, complicando ulteriormente la gestione e il ciclo di vita del legno.
Non c’è bisogno di scomodare esempi limite come le bottaie di Clos Rougeard o Chateau Rayas per comprendere il perché qui da noi sono praticamente inesistenti bianchi degni di nota maturati in rovere di quarto, quinto o ennesimo passaggio…
E il Fiano? Condivido in pieno la tua analisi sui possibili fattori di sviluppo di una denominazione che, comunque, già adesso è di gran lunga, ovviamente per me, la migliore in Campania per qualità media e punte di eccellenza, in buona parte riconosciute sia dal mercato che dai critici-appassionati più esigenti. Perdipiù con una gerarchia di zone e interpreti estremamente condivisa, al di là delle naturali differenze di gusti, approcci e sensibilità. E’ un mio vecchio pallino: la Francia non sarebbe la Francia senza il coraggio e la lungimiranza di riconoscersi in alcuni punti fermi, proprio quelli che danno la misura e offrono vere opportunità a chi parte dopo (o cambia rotta) e dimostra di sapersi confrontare ad alti livelli.
In questi anni, lo ricordavi, abbiamo avuto la fortuna di stappare tante bottiglie di Fiano di dieci e vent’anni non solo integre e bevibili ma in alcuni casi da pelle d’oca. Con l’eccezione dell’Arechi di Vadiaperti (il primo ad uscire ad un anno dalla vendemmia, poi c’è stato Marsella), parliamo sempre di vini immessi sul mercato dopo pochi mesi e immaginati per un consumo molto rapido, come anni ’80 e ’90 volevano. Ogni tanto ci penso: che cosa potevano essere oggi i Fiano base ’88, ’90, ’92 e ’94 di Vadiaperti, il base di Feudi ’94 o ’96, il Radici Fiano ’86 o ’92 di Mastroberardino se fossero stati progettati a monte come etichette da poter stappare senza pensieri ANCHE nel 2011?
Quanto all’opzione fiano-legno, anche qui ragionando di puro vissuto empirico, l’idea che mi sono fatto in questi anni è di un matrimonio estremamente difficile, forse addirittura di più rispetto a quello possibile con greco e falanghina. Ho perso il conto delle volte in cui è capitato a me o a miei colleghi ed amici di assaggiare alla cieca dei Fiano vinificati e maturati esclusivamente in acciaio e pensare ad un bianco affinato in legno. La domanda è: che cosa può aggiungere in termini aromatici tale strumento ad un vino che già di suo ha un profilo tanto ampio e personale di sfumature affumicate e balsamiche, specialmente se si ha la pazienza di aspettarlo qualche anno?
Anche da un punto di vista gustativo, mi sembra che i Fiano in barrique assaggiati finora tendano ad accentuare i tratti terpenico-amarognoli tipici del vitigno, creando un contrasto con le promesse di dolcezza floreale e fruttata che si manifestano nella prima parte di bocca, senza che ne riceva ulteriore enfasi la complessità minerale insita nei migliori cru del territorio. Non nascondo il mio scetticismo, insomma, ma da appassionato irpino è tanto il piacere e la curiosità di sapere cosa possa venir fuori da questa sfida se qualcuno vorrà cimentarsi seriamente, magari sperimentando diverse soluzioni per dimensioni, provenienza o età dei legni utilizzati.
Del resto è ancora un involontario flashback a far riaffiorare il ricordo di un Campanaro ’98 bevuto qualche anno fa alla Maschera. Blend a maggioranza fiano, raccolta tardiva, annata calda e piovosa, maturazione in barriques nuove: era in partenza tutto ciò che non doveva piacermi per nessuna ragione, eppure si rivelò una bottiglia spettacolare per integrità e piacevolezza, ma anche e soprattutto per forza e complessità. Morale della favola: il vino ti frega sempre, non c’è niente da fare, e questo è l’unico caso in cui adoro essere fregato… :-))
*Responsabile Campania per il Gambero Rosso
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