di Raffaele Mosca
Ricominciamo il nostro viaggio dalla regione più sottovalutata dello stivale: quella che mi ospita più o meno da quando sono nato. Il Lazio paga lo scotto di una frammentazione quasi esagerata, al punto che lo si potrebbe considerare un insieme di piccole regioni piuttosto che una regione unitaria. A questo si aggiunge la piaga delle produzioni dozzinali che ne hanno sempre rovinato la reputazione, relegandolo a regione di serie C nel panorama vitivinicolo italiano.
Un tour organizzato dalla S’Osteria 38 di Acquapendente (VT) con il supporto dell’enogastronomo autoctono Carlo Zucchetti ci ha permesso di conoscere meglio uno dei comprensori più interessanti del Lazio, ovvero la Tuscia Viterbese, area di confine tra Lazio, Umbria e Toscana che ha un potenziale turistico enorme e solo parzialmente sfruttato. Partendo dall’indotto di S’Osteria, progetto di ristorazione che offre opportunità lavorative a persone con disabilità o basso potere contrattuale, abbiamo esplorato un vasto areale che si estende dalla città di Viterbo fino all’Umbria e alla Toscana, con il Lago di Bolsena a fare da baricentro e la Via Francigena che corre nel mezzo. Un pezzo d’Italia veramente sorprendente: costellato di borghi medievali ben conservati, necropoli etrusche, rovine e castelli, aziende agroalimentari d’eccellenza come il caseificio dei Fratelli Pira e l’agriturismo Pulicaro, fattoria a tutto tondo che ospita al suo interno allevamenti di pecore, capre, maiali e volatili alla stato brado.
Da qualche anno, la Tuscia viterbese vive anche un rinascimento vinicolo, grazie all’impegno di produttori piccoli e piccolissimi che stanno recuperando il patrimonio semi-abbandonato di una zona dove la viticultura industriale ha attecchito solo in parte. Alcuni di questi hanno effettuato selezioni massali da vigne vecchie, recuperando autoctoni rari come il Grechetto Rosso e il Roscetto o di uve condivise con i territori confinanti come l’Aleatico, il Grechetto, cloni di Sangiovese spesso diversi da quelli toscani; altri, invece, hanno approfittato dell’assenza di un indirizzo comune per sperimentare vitigni di altre zone, spesso con risultati sorprendenti.
Allo stato attuale, il panorama vitivinicolo della zona è disomogeneo, ma piuttosto allettante, soprattutto per gli amanti dei cosiddetti vini artigianali. Tra le aziende più interessanti – tutte di dimensioni piccole o medio-piccole – segnaliamo Antonella Pacchiarotti e Vigne del Patrimonio nel circondario del Lago di Bolsena, Habemus a Blera, Podere Orto nella Frazione Trevinano di Acquapendente, Sergio Mottura a Civitella d’Agliano, Tenuta La Pazzaglia a Castiglione in Teverina, Muscari Tomajoli nell’area costiera di Tarquinia.
Ecco i due vini che ci hanno colpito nel corso di questo tour:
Vigne del Patrimonio – Aladoro Brut
Quando a produrre vino sono dei degustatori scafati che hanno deciso di passare dall’altra parte della barricata, è difficile che il risultato sia deludente. Lo dimostrano i titolari di Vigne del Patrimonio, già redattori della guida Sparkle di Cucina e Vini, che, dopo decenni trascorsi ad assaggiare i migliori spumanti italiani, hanno deciso di piantare Chardonnay e Pinot Nero su terreni vulcanici ad un altitudine circa 250-300 metri, nei dintorni di Ischia di Castro. Un progetto che rappresenta un unicum non solo in regione, ma in tutto il centro Italia. Ad assaggiarlo senza sapere da dove proviene, l’Aladoro, Blanc de Blancs con oltre 40 mesi di permanenza sui lieviti, lo si scambierebbe per uno spumante di zona ben più rinomata. Il profumo è di crema pasticcera, yogurt ai frutti tropicali, polvere pirica e cioccolato bianco. La latitudine relativamente meridionale è resa chiara dalla pienezza fruttata del sorso, che scorre comunque con grande facilità, grazie al dosaggio basso e al timbro salino, che sarebbe il marchio di fabbrica del suolo vulcanico.
Antonella Pacchiarotti – Cavarosso
In quanti riescono a tirar fuori senza forzatura un bianco, due rosati, un rosso secco e un passito da un solo vitigno? Non mi viene un mente un nome diverso da quello di Antonella Pacchiarotti, produttrice della Tuscia Viterbese che, nella sua cantina scavata nel costone di roccia nera su cui si erge il pittoresco borgo di Grotte di Castro, sfrutta a pieno la versatilità dell’Aleatico, il polimorfo che si è acclimatato intorno al Lago di Bolsena, tra i pochi vitigni aromatici a bacca a rossa. Storicamente se ne è sempre sfruttata la ricchezza di profumi per produrre vini da dessert, ma Antonella ha capito molto presto che tirare a campare producendo solo vino dolci non è possibile. Da qui la decisione di ricavare ben cinque vini da appena 4 ettari e mezzo di vigneti. Tra tutti, Cavarosso – ovvero l’Aleatico rosso secco – è forse il più rappresentativo, forte di una vinificazione essenziale con un affinamento in acciaio che ne esalta la scorrevolezza. La 2019, che si trova adesso in commercio, è da bere tutta d’un fiato: simile ai migliori vini del Beaujolais per profusione di aromi fruttati e floreali esuberanti ma non stucchevoli, abbinati ad acidità discreta, sapore sapido da vino di vulcano, tannini soffici e rimandi speziati che rallegrano la beva. Sembra un vino da sbicchierare in spensieratezza, ma una 2016 stappata subito dopo dimostra che può anche migliorare con l’evoluzione in bottiglia. Il tempo ridimensiona il frutto e aumenta il bagaglio di pepe ed erbe spontanee: chi ha dimestichezza con i vini del sud della Francia, troverà qualche assonanza con certe Grenache fatte da quelle parti.
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