di Marina Alaimo
E’ tempo di kaki, anzi di legnasante perché nella zona vesuviana, dove questa coltura è molto diffusa, è così che vengono chiamati. Probabilmente questo nome stravagante è dovuto al fatto che questi frutti compaiano sui banchi dei mercati nel periodo dei morti. La Campania ricopre il 50% della produzione italiana, pertanto la coltura del kaki rappresenta una eccellenza del nostro territorio. E’ il frutto che annuncia l’arrivo dell’autunno e con il suo arancione intenso tinteggia allegramente la campagna che comincia a spogliarsi delle foglie. E’ una ebenacea ed il suo nome scientifico più diffuso è Diospyros Kaki Tumb.
Questa pianta dai frutti molto saporiti e zuccherini ha origine in Cina e più fattori confermano tale tesi. La presenza di numerose varietà di kaki ed il ritrovamento di piante selvatiche, anche alcuni testi antichi risalenti al V – VI secolo testimoniano una coltivazione piuttosto importante ed ampia. Dalla Cina poi si sono estesi in Giappone ed in Corea. Non si sa esattamente quando e come siano arrivati in Italia. Le prime testimonianze scritte sono alquanto recenti, infatti risalgono al XIX secolo. La zona di partenza nella coltivazione del kaki è quella dell’agro nocerino sarnese. Qui fu impiantato il primo diosporeto nel 1916 e nel 1929 gli ettari destinati a questa coltura erano già 1700, nel 1946 diventano 5300 con una produzione di 80.000 t. In Campania nel 1946 si sono prodotte 250.000 t. su 15.000 ha ed attualmente la provincia di Napoli è il maggior produttore con 16.000 t. Le varietà più diffuse in Campania sono quelle non astringenti: il vainiglia e il kaki tipo coltivato in presenza di impollinatori della varietà diospiro lotus.
L’astringenza di alcuni kaki è dovuta alla difficoltà di questi di raggiungere la maturazione dei tannini presenti in quantità sostenute. Nel passato i contadini avevano imparato in maniera empirica che conservando i kaki in ambienti protetti insieme alla mele, questi riuscivano a raggiungere pienamente la maturazione perdendo l’astringenza. Praticamente l’alto contenuto di acetaldeide delle mele trasforma i tannini dei kaki da solubili ad insolubili eliminando la fastidiosa astringenza. Questo ormone vegetale viene utilizzato ancora oggi per eliminare al gusto la sensazione allappante di alcune varietà. La raccolta avviene da ottobre a gennaio ed è piuttosto costosa in quanto praticata esclusivamente a mano. Il mercato attualmente richiede le tipologie di kaki sodo, specie al sud, mentre al nord è ancora venduto quello molle anche se risulta sempre meno ricercato. E’ un frutto ricco dal punto di vista nutrizionale. Possiede un importante contenuto di carotenoidi che gli conferiscono il colore arancio: 5-6 mg./100 gr di polpa, mente la buccia ne contiene 10 volte di più. Sostenuta è anche la presenza degli zuccheri: 14-16 gr/100 gr di polpa e 4 volte di più nell’ epidermide. Le proantocianidine presenti nel kaki possono ridurre il rischio di malattie cardiovascolari riducendo la pressione del sangue e l’aggregazione piastrinica. In Giappone il succo e l’aceto di kaki (kakisu) sono usati come medicine tradizionali per abbassare la pressione sanguigna. Il kaki sembra avere anche effetti positivi sulla metabolizzazione degli zuccheri e dei grassi, infatti diete a base di kaki hanno ridotto il tasso di glucosio plasmatici e i trigliceridi in conigli diabetici. Test in vivo e in vitro hanno messo in evidenza i carotenoidi, come il licopene, e le catechine, presenti nel frutto di kaki, sono risultati chemioprotettivi contro una vasta gamma di tumori, in particolare al cancro alla prostata e al seno, etc. Da studi giapponesi e coreani risulta che l’assunzione di kaki e di snack a base di questo frutto sembrano ridurre il tasso alcolemico in percentuali piuttosto elevate.
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