di Manuela Piancastelli*
C’è un grosso equivoco dietro uno dei formaggi più buoni e rari della provincia di Caserta, in Campania, il conciato romano. Tutte le guide specializzate, da Formaggi d’Italia dello Slow Food alla Garzantina dei prodotti tipici, riportano come comune d’origine di questo straordinario formaggio Pontelatone, paesino salito negli ultimi anni alla ribalta golosa grazie al Casavecchia, un vitigno autoctono di gran razza della zona. In realtà, anche se il conciato romano è tipico di tutta l’area del medio Volturno (Pontelatone, Formicola, Castel di Sasso, Piana di Monteverna) l’unico produttore – anzi produttrice – esistente, grazie alla quale il conciato romano non è finito nell’inventario dei sapori perduti, è di Castel di Sasso. L’equivoco è un classico pasticcio all’italiana. Quando una decina di anni fa si ricominciò a parlare di conciato romano, si fece avanti un personaggio che comprava il formaggio dal produttore e si spacciava per tale. Dopo qualche anno l’equivoco – per non dire truffa – fu svelato ma nell’immaginario collettivo il luogo di produzione del conciato romano è rimasto solo Pontelatone. Potenza dei qui pro quo a suon di grancassa mediatica.
Castel di Sasso è un piccolissimo borghetto senza pretese artistico-architettoniche ma particolarmente affascinante perché costruito a picco su un enorme sasso, appunto, di granito. Da Castel di Sasso, immersa in oliveti secolari, boschi pieni di cinghiali, vigne a spalliera alta dove il casavecchia si arrampica con i suoi grappoli pesanti e scurissimi, si gode una vista arcadica, fuori dal tempo. In questo paesino dove le frazioni sono costituite da gruppi di tre-quattro case, nel sito di Buonomini vive Liliana Lombardi con la sua famiglia. E’ lei, Liliana, la vestale del conciato romano. E’ soltanto grazie a lei se alcuni di noi hanno avuto il privilegio di assaggiare questo formaggio. Liliana ha raccolto il testimone dai suoceri, Lombardi anche loro (il marito porta il suo stesso cognome anche se non sono parenti) che allevavano pecore, capre e le ormai rarissime mucche bianche. La suocera faceva da sempre, in casa, il conciato romano – tradizione, appunto, della zona – e per Liliana continuare è stato naturale. Anche lei e il marito hanno il gregge, 160 pecore meticce che, mentre parliamo nella piccola cucina-laboratorio, s’inerpicano lungo i sentieri dei boschi. Li vedo davanti a me dalla finestra della cucina del loro piccolo regno, “La Campestre”, un agriturismo con solo tre-quattro stanze, entrato nei circuiti internazionali proprio grazie all’eccezionale formaggio di Liliana che ha trasmesso la sua passione per la tradizione anche al figlio Fabio, vent’anni, il più giovane “casaro” d’Italia.
Nel conciato romano la straordinarietà è nell’affinamento più che nella tecnica di produzione. Liliana, che ha appreso l’arte soprattutto da una vecchia cugina della suocera, lo racconta così: il latte appena munto si mette in bagnomaria tiepido con il caglio di capretto o di agnello (ndr: per chi non lo sapesse, il caglio è la sostanza prelevata dallo stomaco di un capretto o agnello da latte subito dopo che ha mangiato, quindi è latte fermentato dai succhi gastrici). Si lascia un paio d’ore a rapprendere, poi si rompe (rottura della cagliata) e lo si tiene in acqua tiepida per un’altra mezz’ora. A questo punto si mette la rottura nelle fuscelle (canestrini un tempo di giunco e oggi, per obbligo sanitario, di plastica!!!) per consentire al siero di colare. Nasce così la forma di formaggio. Si sala da un lato e, dodici ore dopo, dall’altro. Poi si leva dalle fuscelle e si mette ad asciugare nel “casale”, un semplice mobile aperto composto da mensole di listarelle di faggio riparato da una zanzariera, per dieci-quindici giorni, a seconda del tempo e della stagione. Il periodo migliore è tra novembre fino a maggio-giugno. Finita la fase dell’asciugatura, comincia quella più impegnativa e tipica: le forme vengono lavate con l’acqua di cottura delle pettole (pasta fresca fatta in casa), quindi ricca di amido, si fanno asciugare su un telo di lino e successivamente vengono poste in orci di terracotta con una conciatura di olio, aceto, peperoncino e pimpinella, un’erba aromatica selvatica. Il formaggio, in questo modo “conciato”, viene messo nell’orcio e sigillato. Resta così, in una situazione anerobica, per un periodo variabile da sei mesi a due anni durante i quali si svolge la sua maturazione. Della storia del conciato romano si sa molto poco: secondo alcuni, potrebbe essere l’antico formaggio trebulano, di cui parlano autori latini (Trebula baleniensis era una colonia romana vicino a Pontelatone) ma in effetti di come e quando sia comparso per la prima volta si conosce poco e niente. Si sa solo che il risultato di questo lungo e paziente lavoro di affinamento è un formaggio particolarissimo: la superficie esterna diventa leggermente cremosa, l’odore è intensissimo, quasi pungente. In bocca è un arcobaleno di emozioni, tutte violentissime eppure armoniche. Se dovessi usare un solo aggettivo, direi che è un formaggio estremo: mi ricorda insieme formaggi di fossa e erborinati stravecchi. Difatti è praticamente impossibile tentare un abbinamento con qualunque tipo di vino. Lo abbiamo provato con il casavecchia, pure molto robusto e concentrato, che ne viene però totalmente oscurato. Fabio suggerisce un possibile abbinamento con un passito: non lo abbiamo ancora provato, vi faremo sapere.
“Prima il conciato diventava grigio scuro, ora ho imparato a farlo rimanere chiaro”, spiega Liliana mentre mostra orgogliosa le poche pezze di formaggio rimastele. “Io il conciato romano lo faccio da trent’anni, lo facevo anche in Belgio dove ho vissuto per tanto tempo con mio marito, lo facevo per la famiglia, per parenti e amici. Lo vendevo a quattro lire: poi, nel ’97, tornata in Italia, feci un corso per aprire l’agriturismo e mi accorsi che i docenti, tutte persone competenti, erano estremamente interessate al conciato romano”. Alla fine degli anni ‘90 anche Vito Puglia dello Slow Food si appassionò al conciato romano al punto che nel 2000 diventò presidio. E mito virtuale. Perché tutti parlavano di questo conciato ma il formaggio non si trovava. “E certo – spiega Liliana – io in un anno oggi riesco a farne al massimo 2-300 chili, io lavoro esclusivamente il latte delle mie pecore, so quello che mangiano, dove lo mangiano, pascolano allo stato brado in montagna”. Così il conciato ha corso il rischio di essere penalizzato dalla sua stessa notorietà mediatica. Perché un prodotto che non si trova all’inzio incuriosisce il consumatore, poi lo allontana. L’obiettivo di Liliana e del giovane Fabio è di arrivare al massimo a 4-500 chili l’anno che significa il latte di di 3-400 pecore. “Oltre non possiamo andare, non ce la facciamo”. Va da sé che, dopo Liliana, in tanti si stanno cimentando con il recupero di questa antica tradizione. Perciò Fabio ha pensato di mettere tutti insieme nell’Associazione Amici del conciato: sono già una decina di soci, quattro i produttori. “L’importante è non derogare dal fatto che bisogna lavorare solo il latte prodotto con le proprie pecore, altrimenti facciamo la fine della mozzarella che nessuno ha tutelato e ora la fanno anche in America”, dice Fabio. “E poi stare insieme ci serve a chiedere, come è accaduto per il lardo di colonnata, deroghe alle norme comunitarie: ad esempio, dobbiamo riuscire a far passare l’utilizzo dell’orcio di creta e del caglio naturale (al momento è proibito in favore di quello chimico, ndr). Ma anche tra noi – continua – dobbiamo darci delle regole”. Sì perché da quando il conciato romano è diventato un formaggio cult, sono in tanti a improvvisarsi casari senza neanche avere una pecora. Come quelli che fanno vino senza vigne. Una bestialità. Eppure ci sono. E in tanti stanno copiando la tecnica dell’affinamento in terracotta anche con latte di mucca o di bufala: “Va bene tutto – dice Fabio, consapevole che ogni azione pioneristica si porta dietro una schiera di imitatori – ma avere i capi propri è importante, essere certi che pascolino nei boschi, che mangino quelle erbe: non si può fare un buon conciato romano da latte di bestie che non escono dall’ovile”. E’ difficile far capire che ostinarsi a fare il formaggio come le nonne e le nonne delle nonne non è una moda, non è per compiacere questo o quel gourmet, ma una scelta di vita che solo venendo qui, tra i boschi di Castel di Sasso, si può capire, guardando i due pastori maremmani che dormono stesi al sole, i gattini che giocano tra i panni stesi, guardando il sorriso solare di Liliana mentre ti regala un preziosissimo cacio, orgogliosa di poter dire alla gente che si meraviglia del fatto che costi caro (ma molto meno di un buon parmigiano): non lo vuoi, non lo capisci? Lascia stare, va’ a prendere il galbanino al supermercato e non mi seccare.
* pubblicato su Ex Vinis nel marzo 2006.
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