di Luigi Moio*
Caro Luciano,
ritorno su questo argomento perché secondo me è necessario chiarire meglio alcuni aspetti.
Concordo perfettamente sul fatto che non bisogna ricorrere a scorciatoie tra l’altro sleali. Ci conosciamo da tanti anni e sai benissimo come la penso su questo punto. Il problema però è un altro. Quando tu parli di uno stile omologante io non sono d’accordo se si considera che questo è il frutto di una evoluzione naturale di un sistema vitivinicolo.
Prima degli anni ’90 la viticoltura dei principali areali di coltivazione dell’Aglianico non era specializzata ed era improntata soprattutto all’ottenimento di alte rese, addirittura in alcune aree le coltivazione erano consociate. I vini erano prodotti da uve spesso non perfettamente mature e non perfettamente sane. In quegli anni non si dava molto peso alla qualità dell’uva e, commettendo un errore gravissimo si pensava che in cantina l’enologo avrebbe risolto ogni tipo di problema. Anche la formazione enologica era maggiormente incentrata sul processo di trasformazione trascurando gli aspetti viticoli. Il risultato, nel caso dell’Aglianico, era l’ottenimento di vini effettivamente non ricchi in colore e non eccessivamente “strutturati”.
Naturalmente, anche in questo caso è possibile parlare di omologazione.
Io ricordo benissimo che la maggior parte dei vini ottenuti dal nostro caro Aglianico rientravano tutti in un unico modello sensoriale caratterizzato da un colore evoluto, nonostante la struttura acida sostenuta, e da note odorose anch’esse evolute e tipiche di un invecchiamento, prevalentemente, di natura ossidativa. Anche in questo caso è possibile parlare di omologazione sensoriale. Tuttavia questo tipo di omologazione è frutto soprattutto di una carenza di sostanze odorose varietali e di una prevalenza di note odorose rientranti nella grande tematica dei difetti sensoriali.
Questi ultimi non sono molti, sono quasi sempre gli stessi e possono essere presenti nella stragrande maggioranza dei vini indipendentemente da cultivar di partenza, zona di produzione, suolo, annata, tecniche di vinificazione, ecc. Il risultato è che in questi vini diventa difficile individuare dei caratteri sensoriali che siano espressione di una vigna, di un suolo, di una annata; tutti aspetti fondamentali alla base della produzione dei grandi vini.
Dal ’90 ad oggi che cosa è accaduto? Si è finalmente capito che per ottenere vini di elevata qualità che siano anche in grado di trasmettere le peculiarità di un sito e di un areale di produzione, bisogna realizzare una corretta viticoltura portando in cantina uva sanissima e al giusto grado di maturazione. Questo punto è di estrema importanza soprattutto nella tecnologia di produzione del vino rosso perché, come è noto, si produce essenzialmente con la buccia.
Quindi, i vini ottenuti da Aglianico, oggi sono più colorati, più concentrati, più strutturati, più morbidi, più puliti, più integri sensorialmente e con tannini meno aggressivi, semplicemente perché è migliorata tantissimo la qualità dell’uva. Il che si traduce in una maggiore ricchezza ed integrità sensoriale del vino con un aumento enorme delle probabilità di individuare nel vino stesso un’identità sensoriale riconducibile alla vigna dalla quale è stato ottenuto. Questo risultato è il massimo auspicabile se si vuole tendere ad un modello vitivinicolo superiore. E’ chiaro che questi vini maggiormente integri e più “ricchi” hanno maggiore longevità e soprattutto in essi con maggiore lentezza appaiono quelle note sensoriali “evolutive” che molti erroneamente associano a caratteri di tipicità.
Tra l’altro questo fenomeno è accaduto anche nelle mitiche aree vitivinicole francesi di Bordeaux e della Borgogna. I grandi vini rossi di Bordeaux e della Borgogna degli ultimi venti anni non sono gli stessi del passato, c’è un’attenzione fortissima all’integrità sensoriale ed al prolungamento della longevità del vino.
Ritornando al nostro straordinario e fantastico Aglianico, i cosidetti “nuovi” Aglianici, dunque, se bevuti molto giovani e senza la necessaria competenza e consapevolezza possono, purtroppo erroneamente, sembrare “atipici”.
Infine è logico che tra Vulture, Taurasi e Taburno le differenze del potenziale enologico sono enormi. Sistemi di allevamento, rese, condizioni pedoclimatiche sono diverse, per cui è normale che, generalmente, i vini rossi del Vulture saranno sempre più colorati, strutturati e concentrati di quelli dell’areale del Taurasi e questi ultimi più colorati, strutturati e concentrati di quelli della zona del Taburno.
*Ordinario di Enologia, Università Federico II di Napoli
Caro Luigi
il tuo ragionamento voga coraggiosamente controcorrente quando affermi, sostanzialmente, che i veri rischi dell’omolgazione sono da iscrivere nel capitolo della antica viticoltura poco attenta alla sanità della frutta e, ancor di più, succube della quantità, quando cioé il ruolo dell’enologo, in Italia impegnato quasi esclusivamente con le grandi masse prodotte dalle cantine sociali, era sostanzialmente quello di correggere i difetti in cantina. In sintesi, l’enologo correggeva in cantina invece di progettare in vigna.
Sicuramente negli anni c’è stato un miglioramento complessivo della viticoltura meridionale e italiana, ma la mia sensazione è che, tutto sommato, il ruolo taumaturgico dell’enologo non sia venuto meno, anzi, il suo peso è cresciuto in maniera abnorme rispetto all’agronomo e, spesso, rispetto allo stesso commerciale. Anche con uva sana in tanti hanno continuato a correggere, salassare, seppellire nel legno, eccetera, eccetera per restare alle cose lecite.
Ora il punto qual è? Che vogliamo tutti vini migliori e più buoni, sicuramente. Ma anche e soprattutto diversi l’uno dall’altro e questa distanza varietale espressa dalla frutta coltivata in diverse condizioni deve in qualche modo venire fuori quando si stappa. Io non voglio un Piedirosso uguale all’Aglianico e non voglio un Aglianico del Taburno uguale a uno del Vulture e magari a un Merlot di Aprilia.
Siamo sicuri che questo sia successo? Negli ultimi tre anni con le selezioni Touring e nell’attività quotidiana (fiere, degustazioni, verticali, ristoranti) avrò provato non meno di cinquemila vini, tutti buoni e potabili per usare una tua simpatica espressione ma, ti assicuro, sono pochi quelli che ricordo con interesse caratterizzato.
Io penso che si sia passati dall’omologazione per difetto, come la individui tu, a quella per eccesso, perdonami la semplificazione giornalistica. Negli ultimi anni nelle bottiglie c’è stato troppo di troppo perché spesso si è pensato di recuperare il ritardo in modo affrettato e poco consono alle diverse tipologie dei vitigni e dei territori.
Questo è il motivo per cui da più parti si invoca un ritorno alla semplicità, alla finezza espressiva. Naturalmente nessuno con un po’ di sale in zucca può auspicare la rusticità balbuziente e polverosa del passato. Queste sono scorciatoie che possono avere l’ambizione di governare una fetta di mercato di nicchia, ma sicuramente non il mondo vitivinicolo nel suo complesso.
Sono quindici anni che mi occupo di vino e una sola cosa ho capito con certezza: siamo ancora alle prime battute di una storia che tutti speriamo sia scritta bene. Dobbiamo, anzi, dovete studiare sino in fondo il comportamento varietale dei diversi vitigni nelle diverse fasi del processo. Questa ricerca scientifica ci può portare a risultati straordinari come all’ammissione che si, in fondo non basta che un vitigno sia autoctono per avere tipicità e soprattutto piacevolezza e che i blend di una volta forse avevano qualche ragione in più della reciproca correzione dei diversi tempi di maturazione delle uve.
Mi auguro che le regioni meridionali invece di investire solo in triccabballacche e putipù riescando a destinare ingenti somme per la ricerca perché di questo oggi c’è bisogno se si vuole riconquistare un primato vantato spesso in etichetta ma che risale a duemila e passa anni fa.
Quello che io non voglio, però, è raccontare l’inseguimento a un presunto gusto internazionale, non si sa da chi decifrato e vivisezionato, con vini di territorio che non riescono più a riconoscere il cibo del territorio. Perché questo, per me, è il primo parametro ormai da prendere in considerazione.
E su questo, lo so, siamo più che d’accordo.
Insomma, pensavo fosse ora di ritirarsi. Invece è iniziata la vera battaglia:-)
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