La colata lavica del 1944 si è fermata dopo aver tagliato la pineta dove iniziano i vigneti. Sul terreno di sabbia nero vesuviano nasce la nuova scommessa del Coda di Volpe e del Piedirosso, due uve sempre poco considerate dai produttori e dai consumatori ma capaci di regalare davvero belle soddisfazioni se affrontate con determinazione. È questo lo squillo di tromba dell’azienda De Caprio, una proprietà alle falde del Vesuvio nel comune di Torre del Greco. In origine erano oltre 80 ettari, diventati una ventina con la successione ereditaria che porta al giovane Francesco che ha impegnato circa dieci anni per regolare i rapporti con i coloni, reimpiantare i vigneti, costruire la cantina con le barrique custodite in uno dei corpi di fabbrica sparsi per la tenutadalla quale si gode la vista di Capri, Ischia e della Penisola Sorrentina. La sensazione regalata dal Golfo quando si osserva con i piedi piantati sulla sabbia nera vulcanica è quella di una culla, la culla dove è nata la migliore agricoltura del Mediterraneo Occidentale: la prima vendemmia etichettata è del 2004 ma è con la 2005 che De Caprio ha iniziato a configurare la sua proposta produttiva. La strategia è quella di puntare sui vitigni autoctoni facendo bottiglie importanti e pensate, nate dalla collaborazione con l’enologo toscano Bernardo Canuti. Il tridente comincia con il Bianco di Monticelli da coda di volpe, biancolella, e greco, fermentato solo in acciaio: un bianco complesso, minerale, molto ricco e strutturato. C’è poi il Gheorgos di Monticelli, anche in questo caso l’enologo gioca a ribaltare i luoghi comuni, come spesso capita quando le cose vengono viste da occhi esterni. Piedirosso di pronta beva? Macché, ci sono gli estratti e la freschezza per sostenere un grande bicchiere da invecchiamento, importante, tipico, abbastanza morbido. Inizialmente prevalgono le note tostate del legno, ma il frutto emerge rapidamente a bicchiere aperto e racconta le caratteristiche di questo vitigno, molto difficile, ma capace di regalare grandi soddisfazioni. Completa la linea il mio preferito dei tre: il Terre di Monticelli. La coda di volpe vesuviana fermenta in barrique dove resta per un bel po’ di mesi in affinamento prima di passare al vetro. Il risultato è davvero positivo: il naso vede prevalere il legno, poi si fanno largo i sentori tipici dell’uva del Vesuvio, mentre in bocca il risultato appare più equilibrato, la frutta prevale nettamente, è solo resa più interessante dal rapporto con il legno. La dimostrazione, già verificata con il Serra Docile da Luigi Moio alla Cantina del Taburno, che la coda di volpe ha un grande futuro da giocarsi. Un bianco d’autore, insomma, che sposa il mio gusto bianchista a tutto campo, penso anche con buone possibilità di invecchiamento.