L’amico Carlo Flamini mi ha chiesto di raccontare Lucio Mastroberardino attraverso i suoi vini per il numero speciale del Corriere Vinicolo, periodico dell’Unione Italiana Vini di cui era presidente, uscito ieri. Ecco l’articolo.
Si dice che più si sa e meno si sa. Ma una cosa l’ho sicuramente imparata in tanti anni di scrittura e degustazioni: il vino somiglia anzitutto a chi lo fa, nel bene come nel male. Non è dunque un moto retorico dire che nei vini di Terredora c’è tutto il carattere di Lucio, la storia della sua famiglia, una delle dinastie più importanti della viticoltura italiana, il genius loci dell’Irpinia, terra di colline avvolte dal gelo e di valli isolate circondate dai massicci del Partenio e del Terminio.
Nei vini di questa terra c’è concretezza, nessuna voglia di stupire perché si è lontani dal palcoscenico metropolitano, tanta cocciutaggine nel conservare le proprie abitudini, dalle cultivar ai vitigni, dal cibo alle ricette. Un istintivo rifiuto verso ciò che viene da fuori. E questo isolamento, appena alleggerito dall’autostrada ma ora pesantemente insidiato dalle culture del piccolo schermo, è diventata qualità positiva, ossia tipicità, quando si parla di vino.
Perché per sopravvivere l’Italia non ha altra strada che esprimere le sue differenze e l’Irpinia ha fatto di virtù necessità restando fedele all’Aglianico, al Fiano, al Greco, alla Coda di Volpe anche quando si consigliava di impiantare vitigni più prolifici e facili, fedele nell’attesa dei tempi lunghi di una vendemmia che ancora oggi termina ai primi di novembre con tutti i rischi che questo comporta, fedele a tecniche di lavorazioni essenziali, acciaio e solo acciaio per i bianchi, legno e tempi lunghi per l’Aglianico.
E i vini di Lucio, come quelli di suo cugino Piero, sono appunto questo: dei benchmark, o idealtipi weberiani per chi mastica sociologia, categoria kantiana. Sono l’annuncio dell’annata, la spiegazione delle sue caratteristiche, delle possibili evoluzioni. Insomma, il primo sorso che qualsiasi degustatore o operatore del settore è costretto a fare per capire come è andata.
Da questo punto di vista il lavoro di Lucio è monumentale: aver imposto questo stile nei vent’anni cruciali dello sviluppo della viticoltura irpina mentre in giro impazzavano tutte le mode possibili e immaginabili e stato decisivo per la conservazione della identità.
Spesso infatti si danno le cose come acquisite. Immaginiamo però cosa avrebbe voluto dire per questa terra se, per esempio, Lucio avesse deciso di passare allo chardonnay perché, tanto per dire, era più facile da comunicare negli anni ’90 sui mercati internazionali.
Invece no, qui il backstage mentale irpino, la capa tosta come si dice a Napoli, è stata più forte di ogni suggestione possibile.
Ma non vorrei dare l’immagine di un viticoltore chiuso all’innovazione. Laureato in Enologia, nel corso delle sue venti vendemmie Lucio ha dimostrato di saper gestire il legno, la tecnologia più moderna in cantina, ha operato, d’intesa con i fratelli Daniela e Paolo, per una organizzazione precisa del catalogo che esprime con coerenza i territori da cui provengono i vini non limitandosi al solito assemblaggio annuale ed esprimendo al meglio il genius loci che è alla base della nascita di Terredora, ossia i 200 ettari vitati che da sempre sono stati il riferimento delle denominazioni.
La sua conoscenza del territorio era piena e saggia. Ricordo durante una degustazione nel 2005 si alzò per dire che la 2003 non era affatto una annata perduta per l’Aglianico nonostante il caldo perché l’uva tardiva aveva comunque avuto il tempo di ritemprarsi. Sulle prime pensai che era un bravo venditore, con il tempo ho dovuto dargli ragione in continuazione.
Pensate, proprio il giorno prima della sua scomparsa ho provato un Aglianico 2003 fresco, giovane e slanciato pensando tra me e me: cavolo come aveva ragione Lucio.
I suoi vini, bianchi e rossi, esprimono compiutamente la sua persona: legati visceralmente al territorio, non urlati, persistenti, eleganti, pieni di carattere, riconoscibili, tenaci nel tempo. I suoi Greco e i suoi Fiano, ma anche la Coda di Volpe che con mia grande gioia ha continuato a produrre, esprimevano l’Irpinia con quelle note sulfuree sempre in agguato, l’agrumato, l’esasperata acidità che impone tempo e pazienza, quella necessaria per dialogare qui dove non si ama la contrapposizione urlata ma si pretende intelligenza dall’avversario.
Lucio non sarebbe mai stato capace di creare un vino-evento, non rientrava nella sua logica perché troppo segnato dall’umiltà nell’ascoltare e dalla essenzialità pratica di chi ama andare al sodo nelle cose, in tutte le cose. Era un grande passista, non uno sprinteur e il suo sguardo pacato sembrava sempre dirti: aspettami, che ti raggiungo.
E’ innaturale e tremendo dover parlare della vita spezzata di chi è più giovane di te. Mi consola sapere che il suo contributo all’identità irpina è stato fondamentale anche per i prossimi anni. E poi avere la possibilità di bere i suoi vini per sempre, perchè Lucio ha fatto vini che non potranno mai morire dentro la bottiglia.
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