Antonio Prinzo
Tutto di un colpo, quando meno te lo aspetti, ti piomba addosso la stanchezza e la sfiducia. Tranquilli si parla di cibo e quindi si può continuare a sorridere, ma l’incazzatura che ti sale nel nostro Cilento spesso è molto alta.
Stiamo parlando da anni di Dieta Mediterranea, biodiversità, eccellenze gastronomiche, presidi slow food, se ne parla nei blog, nei convegni, nelle tavole rotonde, nei consessi altisonanti. Ma quando ti siedi a tavola, in una delle tante tavole della ristorazione cilentana ecco che scompare il cacioricotta cilentano, presidio slow food, eredità dei nostri nonni e bisnonni. Intendiamoci ci sono i ristoratori dove questo non accade, ne parliamo in questo blog, se ne parla nelle guide e sulle riviste, ma questo non basta. E’ la ristorazione diffusa che langue in un stanco rito che confonde fusilli, cortecce, orecchiette, paccheri e paccherini. Che non sa cosa è il ragù cilentano e non sa più proporti con onestà un fusillo fatto a mano, come nonna comanda, e quello che è peggio giura e spergiura che è fatto a mano e magari per confonderti ancora di più lo cosparge di parmigiano e magari (sembra incredibile ma mi è capitato) lo delizia con il pepe rosa, giusto per ucciderlo definitivamente.
Forse sono sfortunato io, ma capita e capita sempre più spesso, e capita in estate quando devi convincere i turisti che la nostra cucina è unica, particolare, sana e semplice. Fatte le debite proporzioni è come se in Emilia in una delle tante trattorie popolari con le tagliatelle al ragù ti portassero il pecorino romano. Gli emiliani che hanno il sangue più bollente del nostro reagirebbero con sanguigna decisione e non dico come.
Cosa si può fare… io nel mio piccolo lo chiedo, ci discuto, provo a convincere, ma forse sono istituzioni come lo Slow Food, l’associazione della Dieta mediterranea, il Parco, che dovrebbero andare dai ristoratori per educarli e aiutarli a fare meglio. Forse lo fanno già. Facciamolo di più.
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