di Fabrizio Scarpato
“Michelin? Allô…”
“Mmmm…”
E’ sempre nervoso nei giorni precedenti il Sei Nazioni, forse l’ho disturbato mentre sorseggiava il suo sidro, più probabilmente gli ho abbondantemente frantumato i camemberts. Gli racconto solo che qualche sera prima avevo pensato a lui mentre assaggiavo dei risotti, e che c’erano alcune cose che non mi tornavano, rispetto al quadro che ci eravamo fatti, scazzando come al solito, tra il serio e il faceto: ad esempio, sebbene fossi d’accordo con lui sul fatto che preparare un risotto avesse una qualche vicinanza con un sentimento di solitudine, ecco, nella circostanza non mi ero sentito affatto solo, e molto probabilmente perché non ero io che cucinavo. In effetti mangiavo soltanto, ma, riflettendo sulla diversità esistenziale tra i due ruoli di qua e di là dal tavolo, gli rendevo conto del fatto che nemmeno il cuoco mi era sembrato particolarmente depresso: anzi, il fatto che facesse uscire quattro risotti differenti, in tempi diversi, per qualche decina di persone che si avvicendavano da qualche ora, aveva un che non dico di gioioso, ma certamente di mistico, al limite del sovrannaturale.
Sento del trambusto dall’altra parte del telefono, come fosse caduto dalla sedia sulla quale è solito dondolare in bilico sulle gambe posteriori: gli spiego che era una serata di festa, che il padrone di casa era stato impeccabile, gli amici sempre amabilmente e affettuosamente scassapalle, il cuoco, come detto, magistrale. Per ingolosirlo e ingelosirlo, gli descrivo il primo risotto con gamberi crudi, mantecato nella loro maionese, molto bello, sgranato, con una morbida acidità che contrastava la dolcezza ostentata, irrisolta, di fatto stolida dei crostacei. Nel mio tumbler ondeggiava un vermut bianco elaborato secondo l’antica formula del signor Carpano: amaricante, per quella nota verde, un insieme di erbe officinali e scorza d’arancia, lasciata magari con un velo di mesocarpo. Il terreno era pronto per l’altro risotto, aromatizzato come un mojito, dolcemente citrino, baldanzoso di menta, in cui giocava un ruolo prepotente una quenelle di gelato di parmigiano trentasei mesi, forte, sapido, inopinato. Non manco di sottolineare che questi due risotti percorrevano infinite sfumature di bianco, bellissimi, come deve essere un risotto che si rispetti, compagno di riflessioni, carta su cui scrivere parole non dette, sull’onda delle emozioni.
Perché il riso ha a che fare con l’anima: non risolve ma evidenzia, porta alla luce, fa emergere. Nulla a che vedere persino coi più straordinari tortellini in brodo, o con un minestrone corroborante: in questi casi si tratta di pronto intervento, di cure materne, rinfrancanti. Una terapia rispetto alla diagnosi, la psichiatria rispetto alla psicanalisi. La madre rispetto all’amante. Proprio per questo lo avevamo definito un gesto d’amore, di un uomo verso la propria donna: lui, solo davanti a una casseruola, ad accarezzare i propri pensieri, portando a compimento una narrazione intima, giro dopo giro, attimo dopo attimo. Una noce di burro alla fine per dire qualcosa di sé, un abbraccio che non si è osato dare, una carezza che non si è saputo fare. Una manciata di parmigiano a suggellare peruginamente un’evidente manifestazione d’affetto.
Sono sicuro che Michelin mi capisce, e così gli confesso di quanto mi avesse poco convinto il tuffo del riso nella caccia, intesa come selvaggina da piuma assecondata da un’aria di noce moscata, proprio perché l’acredine della carne e il sugo che ne deriva, non si accordano con quell’idea di risotto quasi intoccabile, bianca e intatta.
Il risotto è roba per uomini, ma non per mostrare i muscoli, bensì per scoprire e rivelare le proprie debolezze. Sarà per questo che ho tanto apprezzato quello alla zucca con polvere di liquirizia: Michelin ha grugnito, l’ho sentito benissimo, sicuramente perché il colore squillante non si addice alla solitudine, ma la perfezione della cottura, la setosità della trama, la lucentezza dell’aspetto, la vellutata arrendevolezza e l’accogliente equilibrio gustativo, avrebbero certamente convinto anche lui. Ogni tanto si può amare anche a colori.
Ma col mio amico normanno stavo discettando da un punto di vista solo nostro, quello di uomini in cerca d’amore, in perenne squilibrio emotivo, che riversano in un riso le loro attese e le loro sconfitte, compiendo gesti sicuri, parchi e sinceri, nella speranza di essere ricambiati da una donna che sappia ascoltare. Restava da capire quale fosse il sentimento che consentiva a un cuoco, un grande cuoco, di raccontare se stesso a numerose persone, uomini e donne sconosciuti, di volta in volta, allo stesso tempo, con assoluta profondità, con rilassata, candida consapevolezza: perché sempre di questo si tratta, altrimenti un risotto non sarebbe un risotto, non sarebbe niente, non servirebbe a niente.
“Amitié, peut-être…”
“Hai ragione, amico mio… amicizia”.
“Clic”.