Dall’inviata a Milano
Giulia Cannada Bartoli
Tutta campana la prima parte di Identità di Pasta a Milano. Andrea Aprea da un pà di mesi al Vun del Park Hyatt a Milano, Nino di Costanzo del bistellato Mosaico di Ischia, e l’eroe stellato, Francesco Sposito di Taverna Estia a Brusciano. Sono cresciuti questi chef d’età e d’esperienza. Affrontano il mondo con le spalle larghe, sempre aperti a nuove frontiere della cucina. Andrea Aprea “ ‘O marziano” napoletano sbarcato a Milano ha subito fatto soffiare una ventata d’aria fresca, mediterranea, di lungo respiro, più che una brezza.
Intanto Aprea dà il “la” sottolineando l’importanza della materia pasta in sé stessa, scissa da salse e sughi. Pasta non pasta il tema di Andrea. Si parte con un piatto molto elegante, sinuoso: la pasta in abito da sera: linguine preparate con estratto di cavolo rosso, su burrata, crescione, pinoli tostati e aringa affumicato. Bellissimo da vedere, direi glamour, complesso e ricco di significati all’assaggio; tante consistenze, tanti sapori, il dolce della burrata, l’affumicato dell’aringa, il tostato del pinolo, l’amarostico del crescione e del cavolo nero. Andrea è un animale da palcoscenico, ormai, si muove con gesti sicuri, senza, tuttavia, staccare mai i piedi da terra. L’estetica è un elemento molto importante nella sua cucina.
Le sue pianificazioni ed i suoi spostamenti seguono tempi lunghi, progetti chiari, lo chef napoletano sa bene dove vuole andare. Si parla anche con Eleonora Cozzella che ha brillantemente condotto il palco, del fatto che la grande ristorazione italiana, non riesce a varcare i nostri confini e che, purtroppo, lo stereotipo del mangiare italiano all’estero è ancora a livelli molto bassi. Positiva invece la tendenza nelle metropoli in Italia, Roma e Milano in prima fila, a sorpassare il clichè che l’alta ristorazione non possa sperimentarsi nei grandi hotel di lusso. L’altro piatto si sposta decisamente verso l’innovazione, sfoglie di pasta di rapa tirate con uno speciale strumento giapponese a formare dei piccoli cannelloni, da farcire con ricotta di bufala e consommé di scampi freddo.
Una celebrazione dell’unione tra il mare ed il sottobosco, con la sfoglia cruda e la farcia appena intiepidita. Da Milano voliamo sull’isola d’Ischia, a Forìo dove l’isolano doc Nino di Costanzo, in tempi record ha portato il piccolo (meno di venti coperti) Mosaico alla doppia stella Michelin.
La semplicità di Nino è disarmante, tanto quanto il suo aplomb, tranquillo, rassicurante. In effetti questa sicurezza gli deriva da solide basi della cucina familiare materna, che Di Costanzo cita ogni volta che può. Pata e patate ieri e oggi il tema per l’eroe di Pithaecusa. Due versioni, una bellissima, ultramoderna ma molto semplice nella concezione: si tratta in realtà di un piatto che solo un profondo conoscitore della materia prima poteva arrivare a concepire. 70 gr. di pasta in 25 formati diversi con altrettanti tempi di cottura differenti e consistenze differenti. L’antica “mescafrancesca” napoletana. Nino ha grande rispetto e considerazione per tutte le grandi materie prime campane e cerca in ogni modo di promuoverle. La sua è una cucina di ricordi attualizzati, la scintilla parte sempre da un momento dell’infanzia o, dell’adolescenza. Nella versione moderna, servita in un ampio piatto che al Mosaico è sotto le lampade per non perdere il calore, troviamo anche crema di formaggio grana e mozzarella di bufala, minuscole seppioline arrostite con zenzero, infusione di carne di maialino casertano.
La filosofia, continua, Di Costanzo, è sempre quella di non perdere lo straordinario patrimonio di ricette non omologate disperse dalle Alpi agli Iblei, per evitare la globalizzazione del gusto. La versione tradizionale è millimetrica, i sapori e la consistenza ci sono tutti, rassicurante e intraprendente allo stesso tempo.
Il tris d’assi campano si chiude con la perfomance di Francesco Sposìto, giovane che emergente per le Guide Espresso e coraggioso ristoratore stellato, insieme al fratello Mario in sala a Taverna Estia a Brusciano.
Francesco è giovane ma ha macinato chilometri e anni in cucina, prima da Ducasse e poi dal suo maestro e amico, oggi in sala, Igles Corelli. Entrambi i piatti hanno alla base i legumi e, in qualche modo il mare e la terra.
Si potrebbe pensare a tradizionalissimi tubetti con fagioli e cozze e invece no: il procedimento è ben più complesso e strutturato; le cozze seguono una propria strada, per un lungo e faticoso lavoro di pulitura per eliminare le parti poco piacevoli al palato. La tecnica utilizzata è quella della minestra, tuttavia, per la sua preparazione si preparano almeno tre differenti brodi di pesce. I fagioli cannellini sono stati abbattuti e surgelati per evitare che rilascino amidi indesiderati. Francesco conosce a memoria il comportamento degli alimenti, non per nulla sta studiando scienza dell’alimentazione. Il piatto viene preparato live, per il pubblico presente, nonostante qualche imprevisto tecnico. Da 10 kg di cozze viene fuori una salsa di 400 gr, che viene frullata ad immersione con aglio e olio. A questo punto si uniscono i diversi brodi per calare la pasta, prestando molta attenzione al grado di sapidità da tenere sotto controllo
Il risultato è raggiunto, il piatto è equilibrato, ricorda sapori e profumi della versione tradizionale, varia la consistenza, più cremosa e se vogliamo, seducente per il palato. Il secondo piatto resta nel solco delle materie tradizionali e di territorio, stravolgendo del tutto aspetto, colori degli ingredienti e consistenze. Sposìto ha preparato in anticipo un impasto di farina e 30% di polvere di piselli disidratata, il composto viene ridotto in tagliolini, intanto in padella vanno scalogno e olio, e a finitura del piatto, grana e trito di prosciutto di Pietraroja.
Entrambe le preparazioni rispecchiano l’intimo concetto della cucina di Sposìto, la tradizione c’è, è discreta, tanto quanto l’innovazione.
Decisamente una mattinata da non dimenticare, felici di sapere che abbiamo, tra tanti, tre ambasciatori della cucina d’autore campana nel mondo.
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