di Raffaele Mosca
I piatti neoclassici di Achilli al Parlamento, una tappa obbligatoria per gli amanti dei fine wines (specie Borgogna e Bordeaux), in accoppiata con alla selezione di Castello di Vicarello, azienda nella Maremma tra Montalcino e Grosseto.
Sia chiaro, nulla di troppo modaiolo: né sul fronte della cucina, né su quello dei vini, che sono d’ impostazione “Supertoscana”. Hanno molto in comune con il risotto alla coda vaccinara e con la costina di manzo stracotto con i semi di senape dello chef Pierluigi Gallo, che giocano entrambi su grassezze confortanti e golose senza sconfinare nella pesantezza o nella banalità.
Castello di Vicarello si trova in zona Montecucco, dirimpetto all’areale di Montalcino andando verso la costa, ed è nota soprattutto per il resort di lusso ospitato in un maniero dell’11esimo secolo, tra i più belli della Toscana secondo Condè Nast Traveler.
Le vigne, 6 ettari e mezzo in totale, vengono gestite in regime biologico da sempre – perché al momento dei primi impianti venti anni fa c’erano solo sterpaglie intorno al maniero – e sono allevate ad alberello toscano, con una densità che va da 9.000 ai 14.000 ceppi per ettaro.
Tra i cinque vini della gamma aziendale, il Terre di Vico 2018, da blend di Sangiovese (65%) e Merlot (35%) con saldo di Cabernet Franc, è il più intrigante. Il colore è purpureo, ma non eccessivamente cupo o compatto. La prima impressione è di ricchezza più neoclassica che barocca: prugna, amarena, cioccolato fondente, accenti di humus e cuoio e un tocco di freschezza vegetale e balsamica derivante dalla piccola quota di Franc. Il legno d’affinamento – barrique e tonneaux di rovere francese – è praticamente impercettibile e la grinta del Sangiovese emerge chiara al sorso, con tannini incisivi ed un guizzo d’arancia sanguinella che lo allontanano dallo stile “mangia e bevi” di altri Supertuscans prodotti tra Montalcino e la Maremma.
E’ piuttosto originale e un po’ più accattivante in questa fase del Castello di Vicarello, grand vin aziendale in cui Sangiovese e Merlot sono rimpiazzati da Cabernet Sauvignon e Petit Verdot, e, oltre a legno piccolo e medio, si utilizzano anche caratelli da 160 litri: “per raggiungere il punto ideale di maturazione prima di andare in bottiglia”, ci spiega Brando Braccheschi Berti, titolare dell’azienda. Il risultato è vino ugualmente ben costruito, non eccessivo in termini di potenza e calore, ma più allineato con gli schemi classici della categoria: gioca sull’ampiezza più che sullo slancio, carico di frutto scuro e appena boisè in chiusura.
Snello ed austero – ma non ancora nel pieno della sua espressione – il Poggio Vico 2018, da uve Malbec in purezza, finalmente venuto al mondo quest’anno dopo ben 17 anni di sperimentazioni. “E’ un omaggio all’Argentina, paese che i miei genitori amano, ma abbiamo cercato di renderlo diverso dai Malbec giocati tutti sul frutto molto maturo di quelle zone, anche se i cloni provengono da Achaval Ferrer a Mendoza”. Centrato nella sua semplicità anche il Merah 2020, Sangiovese d’entrata con affinamento in parte in botte grande e in parte in acciaio.
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