di Giulia Gavagnin
Italo Calvino diceva che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
Il medesimo concetto si potrebbe benissimo riferire ai piatti di cucina che hanno segnato e cambiato la cultura italiana nell’arte culinaria.
Cos’è un “classico” in cucina? E’ un’idea che segna l’immaginario collettivo, è un approccio che crea proseliti, è un manufatto che trascende il luogo domestico “cucina” propriamente inteso per entrare a far parte del patrimonio culturale gastronomico della nazione.
La cucina evolve attraverso i suoi autori, attraverso le idee dei singoli.
Un’idea innovativa non è necessariamente generata dal movimento che in ambito artistico è stato definito “avanguardia” e che è spesso abusato da chi scrive di cuochi e di fornelli.
“Avantgarde” è stata una rivista pubblicata a partire dal 1878 da Michael Bakunin, che raccoglieva tutti i movimenti di rottura nei confronti delle arti in allora attive.
Innovazione non necessariamente corrisponde a rottura.
Né tantomeno un “classico” esita da un movimento di rottura, ma più semplicemente dalle mani e dalla mente di chi una determinata cosa la sa fare meglio dei suoi contemporanei.
Un ”classico” è spesso una sintesi della sua epoca che si estrinseca attraverso forme e formule che soddifsano più facilmente di altre l’atavico istinto dell’uomo ad appagarsi di canoni estetici innati.
In questo scritto non mi sono occupata dei piatti della tradizione che non hanno un autore definito, né della cucina della nonna, pur sapendo che tutti i nostri più grandi cuochi sono debitori alla nonna.
Per mere ragioni di spazio non hanno trovato posto alcuni nomi noti.
Tra questi, un classico indiscusso come lo spaghetto al cipollotto di Aimo Moroni, chè Marchesi nella stessa epoca è stato appena più significativo.
I ravioli di zucca di Nadia Santini, perché in questi ultimi prevale l’elemento della tradizione su quello della creazione.
I paccheri di Vittorio, perchè rappresentano un comfort food di grande successo, ma non una creazione totalmente autonoma.
Ci sono chef di maggiore successo, più stellati, più popolari, più ricchi di quelli che ho citato. Ma tra l’essere grandi artigiani e creare piatti iconici c’è una differenza sostanziale. Quella dell’idea bruciante, defintiva.
Si tratta, ovviamente, di un percorso soggettivo.
Al momento, i candidati più accreditati ad aumentare l’elenco sono Antonia Klugmann, Gianluca Gorini, Nino di Costanzo, che per vari motivi non sono ancora entrati nell’immaginario collettivo della cultura italiana.
Solo il futuro ci rivelerà il vero.
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Carpaccio
Giuseppe Cipriani, Harry’s Bar, Venezia, 1950
Davvero la cucina italiana d’autore nasce nella stessa Venezia apostrofata da Francesco Guccini come “un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità”?
Venezia è da sempre turistica, a Venezia si mangia male per definizione, a Venezia, appunto, non sai dove andare, tanto t’imbrogliano.
Ma ogni grande civiltà, quale è stata la Repubblica Serenissima, ha alcune frecce al suo arco che saldano il conto.
Il “Carpaccio” di Giuseppe Cipriani è il primo piatto di food-design concepito in Italia, il primo trademark fatto cibo, un nome d’arte più conosciuto nel mondo del pittore cui si ispira, con buona pace di Vittorio Sgarbi che ne è stato uno dei suoi più grandi biografi.
La storia è piuttosto nota. Giuseppe Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar, doveva sfamare una contessa veneziana a dieta ferrea, senza appesantirla.
Ha perciò avuto l’idea di affettare sottilissima la carne di manzo e di spruzzarla con una salsa aioli impreziosita da Worcesteshire e senape.
Leggerezza e colori vivaci, fulminea fu l’idea di dedicare il piatto a Vittore Carpaccio, cui in quell’anno la città di Venezia dedicava una importante mostra.
Il successo fu immediato, in Italia e all’estero.
La storia del “carpaccio” è entrata a far parte del patrimonio culturale della nazione, è menzionata all’Accademia di Brera di Milano, accanto a una didascalia che illustra uno dei più famosi dipinti del pittore veneziano.
Grande fama ha acquisito anche all’estero. Quando Arrigo Cipriani negli anni Ottanta approdò nella Grande Mela, molti hanno imitato l’invenzione del padre, persino Sirio Maccioni di Le Cirque, tempio della NY da bere.
Taluni hanno obiettato che si tratta di una preparazione banale.
A questi rispondiamo, sempre: “se era così banale perché non ci hai pensato tu?”
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Savarin di riso
Mirella Cantarelli, Trattoria Cantarelli, Samboseto (PR) 1961
Nell’Italia rurale che si stava medicando le ferite della Guerra, nella terra narrata da Giovannino Guareschi e da Mario Soldati, due coniugi hanno scritto le pagine più importanti della cucina dell’epoca, tramandando ai posteri un allure leggendario.
Peppino Cantarelli, grande appassionato di vini d’eccellenza e di prodotti della bassa parmense, eredita dai genitori un’osteria con rivendita di prodotti di drogheria.
Nell’anticamera tabacchi e dentifrici, dietro la porta tavoli apparecchiati e sedie impagliate. Segni particolari: si mangia divinamente.
Ai fornelli la moglie Mirella, ribelle e coraggiosa, ha appreso i rudimenti culinari dalla suocera che la riprende perché vuole sempre andare “oltre”. Fare i migliori anolini, la migliore mousse al prosciutto, la migliore faraona alla creta, la migliore anatra arrosto.
Accompagnate, possibilmente, dai grandi vini italiani e francesi che l’oste Peppino somministra agli ospiti.
In questa trattoria che oggi sarebbe definita 2.0. e che probabilmente non è mai stata eguagliata (lo stesso Massimo Bottura l’ha ritenuta decisiva per il suo percorso), va in scena l’epoca del boom economico del paese. Sfilano giornalisti, notabili, attori, persino l’intero cast di Novecento di Bertolucci desina qui ogni giorno durante le riprese.
Mirella si appassiona alla cucina francese, quella importata dagli Estensi che da queste parti governarono a lungo.
Il suo piatto più rappresentativo è ceertamente il savarin di riso, un anello di riso alla parmigiana ricoperto con fette sottilissime di lingua salmistrata e farcito con funghi porcini e polpette di salsiccia. Di ascendenza estense, è stato attualizzato dalla cuoca in chiave prettamente padana, grazie a progressivi tentativi che le sono costati due anni di lavoro. La trattoria dei Cantarelli ha mantenuto due stelle Michelin fino alla chiusura del 31 dicembre 1982. Un lungo periodo in cui non si parlava di chef stellate, né di gender gap. Un’epoca che forse riconosceva la grandezza a prescindere.
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Uovo in Raviolo
Nino Bergese San Domenico, Imola, 1970
Nino Bergse, classe 1904, è stato il primo cuoco italiano moderno
Di umili origini, prese servizio appena adolescente presso una famiglia nobile torinese, per essere conteso di lì a poco come cuoco di casa dalle più illustri famiglie della città.
La fine della Guerra cambiò il volto della società, le grandi famiglie licenziarono i cuochi e Bergese fu costretto a mettersi in proprio. Il primo “libero professionista” dei fornelli.
Aprì un ristorante a Genova, “La Santa”, dove serviva i piatti di corte come la sella alla Orloff di chiara derivazione transalpina, e piatti della tradizione locale, come la cima alla genovese. Qui nacquero la torta fiorentina e il celebre risotto alla Bergese, a tutt’oggi classici indiscussi.
Tuttavia, la sua pagina senza tempo l’ha scritta con l’uovo in raviolo, ma questa è già un’altra storia.
Quando il rag. Gianluigi Morini volle il primo ristorante borghese italiano, carico di boiserie e stoviglie d’argento, chiese all’anziano Bergese di insegnare l’arte all’ancor troppo giovane Valentino Marcattilii. Il sodalizio doveva protrarsi per qualche settimana, durò invece fino alla morte di Bergese. Il ristorante è il San Domenico di Imola, l’uovo in raviolo rimane il suo piatto simbolico. Sfoglia ripiena, parmigiano, tartufo bianco, tuorlo d’uovo che fuoriesce: perfetta sintesi tra Emilia, Piemonte e opulenza francese. Sempre in carta al San Domenico, insieme al controfiletto alla Bergese e alla torta fiorentina.
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Riso oro e zafferano
Gualtiero Marchesi, Milano 1981
Gualtiero Marchesi per la cucina italiana ha rappresentato la rivoluzione copernicana, come Raffaello per la pittura e Brunelleschi per l’architettura. Non a caso è stato riconosciuto all’unanimità come “il maestro”. Da uomo colto qual era, ha compreso che la cucina italiana poteva uscire dal medioevo in cui versava soltanto se nella cucina stessa avesse instillato l’arte, se il piatto fosse stato parte di una rappresentazione artistica in grado di elevare la mente di chi vi partecipava.
Dopo aver appreso il modello francese, decise di portare in Italia la rivoluzione culturale dei Bocuse e dei Troisgros.
In via Bonvesin della Riva a Milano, nel ristorante che portava il suo nome, prese la prima stella nel 1977 e la terza, da primo italiano di sempre, nel 1985.
Svariati piatti epocali gliela procurarono, dal pollo alla kiev al raviolo aperto.
Su tutti, però, spiccava Riso, Oro e Zafferano, di fatto la prima istallazione artistica nella storia della cucina italiana.
Riunisce la città di Milano, il lusso dell’oro, il deciso cromatismo del giallo intenso su fondo nero che lo rende foto da rivista di interior-design. In seguito, la cucina neo-strutturalista di Marchesi si arricchirà di piatti direttamente ispirati a grandi artisti del novecento, come Fontana, Pollock e Burri. Tuttavia, Riso, oro e zafferano, nella sua spiccata essenzialità, rimane il piatto simbolo dell’inarrivato Maestro della cucina italiana.
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Passatina di ceci e gamberi rossi
Fulvio Pierangelini, Gambero Rosso, San Vincenzo, 1986
“Il grande solista della cucina italiana” (questo è il titolo di uno dei più bei volumi mai dedicati a uno chef, firmato da Raffaella Prandi) è personaggio diametralmente opposto a Gualtiero Marchesi. Con il “Maestro” condivide una viva intelligenza e una vibrata passione per le lettere e le arti. Tuttavia, se Marchesi ha avuto la vocazione di essere l’uomo-simbolo del cambiamento e di formare schiere di allievi nel solco del suo linguaggio auto-codificato, Fulvio Pierangelini ha sempre avuto l’istinto del cane sciolto. Fautore della “cucina del gesto”, non ha praticamente avuto discepoli, perché –narra la leggenda- pare che andasse su tutte le furie se il piccione in padella non veniva girato a destra anziché a sinistra, nel preciso momento che gli suggeriva il suo feroce istinto. Per questo motivo Fulvio Pierangelini e il suo Gambero Rosso a San Vincenzo sono stati un unicum nella cucina italiana. Perché quello che faceva lui, lo poteva fare soltanto lui, con il metronomo interiore che era soltanto suo.
La prova della sua unicità solipsista risiede nel piatto-icona, la passatina di ceci e gamberi rossi, nato da una fortunata casualità: era a casa un martedì con il ristorante chiuso, ma sopraggiunge il Marchese Incisa della Rocchetta con il suo manager che vuole mangiare qualcosa. In frigorifero il nulla, soltanto ceci lessati e gamberi del giorno prima.
Cucina di recupero ante-litteram!
All’epoca il connubio tra legumi e pesce era pressoché inedito e il Marchese, ammaliato dalle sfumature soavi del piatto, gli suggerisce di metterlo immediatamente in carta.
La passatina, per la sua apparente semplicità, è stata copiata da centinaia di cuochi, ma la magia del suo deus ex machina non è mai stata eguagliata. Come per il purè di Joel Robuchon, “è stata la mano di Dio” a creare la consistenza. E, come noto, all’Olimpo ascendono gli dei, non gli umani.
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Vesuvio di rigatoni
Alfonso Iaccarino, Don Alfonso, Sant’Agata ai due Golfi (NA) 1985
Ci sono voluti quasi duecento anni perché la cucina mediterranea tornasse a essere Grande con la “G” maiuscola. Il Sud Italia ha un patrimonio eno-gastronomico enorme e forse insuperabile. Ha subito le dominazioni più disparate, dagli Arabi agli Spagnoli che vi hanno importato le loro tradizioni e le infiltrazioni francesi hanno fatto il resto. Senza contare che la materia prima, al Sud, è baciata dal sole quasi tutto l’anno. Era tuttavia dai tempi dei monsù, cuochi di corte borbonici, che il Sud non aveva un punto di riferimento culinario di grande prestigio e respiro internazionale. I coniugi Iaccarino hanno scommesso dove altri non avrebbero avuto il coraggio. In un paese della penisola sorrentina lontano dal mare e dalle lusinghe di Capri e Positano, nasce il primo grande ristorante borghese del Sud Italia, sul podio della Michelin nel quadriennio 1997-2001. In un giardino da Alcazar, tra stoviglie impeccabili e una cantina che i francesi ci invidiano, gli Iaccarino mettono in scena una cucina di grandeur transalpina e ingredienti rigorosamente locali, provenienti dal loro orto di Punta Campanella. Con il vesuvio di rigatoni diventano famosi nel mondo. E’ la rivisitazione di Alfonso Iaccarino del “timpano ‘e maccarune” (timballo di maccheroni) di origine araba, ingentilito dai monsù nel Settecento. La colata di salsa di pomodoro rafforzata da una spruzzata di lombata di maiale simula l’eruzione del Vesuvio, all’interno polpettine di pane, poi fattesi carne nell’interpretazione di Ernesto Iaccarino che, con il fratello Mario, ha assunto saldamente le redini di Don Alfonso Il Magnifico.
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Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano, in consistenze e temperature
Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena, 1994
Massimo Bottura è la sintesi felice e l’evoluzione diretta dei più grandi chef che l’hanno preceduto. In comune con Gualtiero Marchesi ha il grande amore per l’arte, ma a differenza del “Maestro” egli è un comunicatore nato, parla il linguaggio del popolo, non quello dell’Accademia: è un comunicatore pop, non un Professore. Con i Cantarelli che l’hanno influenzato sin da adolescente condivide la passione spiccata per il territorio, con i Morini e i Marcattilii del San Domenico di Imola, luogo dei suoi pranzi di Natale, la vocazione a esportare il territorio.
Ma Bottura è molto più di questo, è un oltrecuoco.
Vero figlio della propria epoca, è cresciuto durante il boom della grande scuola spagnola degli Arzak e degli Adrià: la suggestione dello scienziato prestato alla cucina del Bulli è stata potente in lui, come per i suoi amici e colleghi Moreno Cedroni e Mauro Uliassi. La capacità fuori dal comune di ridurre a particolare il generale, a condensare felicemente le radici di un territorio ricco di prodotti gastronomici, ma a vocazione tutto sommato provinciale come quello modenese con il linguaggio internazionale della più grande cucina contemporanea, l’ha reso, a ragione, lo chef italiano più famoso nel mondo. La sua spiccata passione per il jazz e per l’arte contemporanea, di cui la sua Osteria Francescana pullula, l’ha portato a essere la più grande fucina di piatti iconici degli ultimi trent’anni, perché dell’opera d’arte contemporanea e della cucina come rappresentazione dell’arte ha imparato perfettamente il linguaggio. Dal bollito non bollito alla compressione di pasta e fagioli, dal ricordo di un panino alla mortadella al risotto camouflage, autentici “brand” oltre che piatti, è arduo scegliere il più iconico. Le cinque consistenze di parmigiano sono una sorta di opera a formazione progressiva, che nasce in forma embrionale nella prima trattoria di Campazzo con tre consistenze e finisce negli anni Duemila, con l’aggiunta di due consistenze e diverse stagionature. Il principio è nel soufflè di Cogny, il mezzo risiede nella spuma di Adrià e il fine è nella sua evoluzione, l’aria del territorio, la medesima che fa stagionare parmigiano e culatello. La sua grandezza è nella riduzione di cinque a unica sostanza: Massimo Bottura è andato oltre “l’uno e trino”.
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Cyber-Eggs
Davide Scabin, Combal e Combal. Zero, Almese (TO) 1997
Se Massimo Bottura rielabora in chiave “transavanguardistica” le idee di chi lo ha preceduto e ne opera una sintesi in chiave artistica, il suo coetaneo Davide Scabin è personaggio di avanguardia pura, di rottura nei confronti di qualsiasi idea trascorsa. In realtà, è il figlio perfetto della sub-cultura della sua epoca, degli anni Novanta che all’edonismo reaganiano hanno anteposto un individualismo neo-decadentista, che hanno visto proliferare i film surreali di David Lynch e il grunge di Seattle il cui cielo grigio può ricordare a tratti quello di Torino.
In quegli anni si faceva un gran parlare di una trattoria ad Almese, all’imbocco della Val di Susa, dove un giovane cuoco serviva un menu tradizionale piemontese ai clienti normali e piatti creativi fuori dal comune a chi li chiedeva in gran segreto.
In questo circuito massonico che a tarda notte si trasformava in una specie di bisca clandestina, in un’atmosfera sospesa tra spleen parigino e noia del mattino matura il piatto più dirompente degli anni Novanta, il Cyber-Eggs.
Scabin è in cucina a manipolare svogliatamente della farina, fino a che il suo sguardo si posa su un uovo. Un elemento che nasce esteticamente perfetto in Natura. La sfida è renderlo ancora più perfetto, amplificarne il gusto.. L’intuizione è sigillare il raviolo che Marchesi aveva aperto.
Un bisturi a incidere la pellicola, il nuovo guscio, una sorsata inebriante come una fumata d’oppio da boudoir novecentesco. Tuorlo, caviale, vodka, da ingoiare in un unico gesto. Un’opera di food-design che arriva a essere parte di una fulminea piece teatrale.
In quegli anni è sembrato che Davide Scabin potesse essere la vera alternativa a Ferran Adrià, perché parlava un linguaggio completamente diverso che era del tutto nuovo ed era soltanto suo. La storia ha scritto diversamente. Forse, perchè gli è mancata la continuità, o forse perché il suo animo inquieto e ferocemente individualista gli ha impedito di codificare un pensiero univoco e lasciare una successione. Tuttavia, ancora oggi, moltissimi piatti di cucine stellate nel mondo traggono ispirazione dall’esperienza del Combal.Zero, anche se nessuno chef avrà mai il coraggio di ammetterlo.
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Cappuccino di Seppie e Cappuccino Murrina
Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD) 1998-2018
Non è mai esistito in Italia, e forse nel mondo, un predestinato come Massimiliano Alajmo. Figlio di ristoratori, ha bruciato le tappe come nessun altro: è stato il più giovane chef di sempre a ottenere all’età di 28 anni tre stelle Michelin, mai messe in discussione.
Precoce come Wolfgang A. Mozart, con il musicista salisburghese condivide l’attitudine alla composizione felice: nei suoi piatti la delicatezza si unisce sempre a un’ebbrezza lieve, misurata, per alcuni non troppo appariscente perché incredibilmente profonda.
La profondità è la naturale conseguenza della sua precocità, per sapienza acquisita vede dove altri non riescono, e gli riesce ciò che ad altri mai riuscirà.
Alajmo è quasi un mistico, uno chef per cui la ricerca della verità del cibo ha la supremazia su ogni cosa, in primo luogo sulla spettacolarizzazione fine a se stessa. La prevalenza dell’essere sull’apparire sembra essere il suo mantra, è da lui che hanno imparato a puntare sulla concentrazione dei sapori i nuovi alfieri della cucina italiana come Niko Romito, Piergiorgio Parini e Antonia Klugmann. Nel corso della sua carriera, che ormai è pari per tempo e intensità a quella di un veterano, ha firmato pagine irripetibili della cucina italiana. Ha saputo accostare ingredienti apparentemente asincroni in una linearità neoclassica, uscendo dai barocchismi di Gianfranco Vissani. I suoi risotti più famosi, ai capperi e polvere di caffè e allo zafferano e polvere di liquirizia, hanno invertito l’ordine degli ingredienti, hanno posto in posizione verticale abbinamenti mai sperimentati prima, che sono entrati a far parte del patrimonio gustativo della nazione. Il suo piatto più iconico e imitato, il cappuccino di seppie, fonde magistralmente la venezianità degli ingredienti, la linearità dei cromatismi di Marchesi, la sublime consistenza della purea di Pierangelini, il gioco di trasformare visivamente la colazione in antipasto. Vent’anni dopo, Alajmo ha saputo aggiornare il piatto ai tempi correnti, traendone una nuova icona contemporanea. Il cappuccino-murrina riprende i cromatismi accesi dei vetri di Murano e aggiunge il profumo di salsedine della laguna, con l’inserimento dei ricci di mare. Un piatto che nasce perfetto e, se possibile, aumenta le vibrazioni tra le mani dell’enfant-prodige della cucina italiana.
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Assoluto di cipolla, parmigiano e zafferano
Niko Romito, Reale, Rivisondoli – Castel di Sangro (AQ), 2009
C’è stato un momento nella storia della cucina italiana in cui destava meraviglia l’accostamento ardito di cinque o anche di sei ingredienti, apparentemente incompatibili tra loro. Il più illustre giocoliere culinario è stato Gianfranco Vissani, sembrava che il futuro fosse suo, e invece ha prevalso la linea della semplicità apparente. L’essenziale appartiene a un ideale atavico di perfezione apollinea, di semplicità hanno parlato in molti, Nino Bergese ne aveva data una sua primordiale versione quando diceva “non stancarsi mai di schiumare e sgrassare”, poi ne hanno fatta una bandiera Marchesi e Pierangelini, e Alajmo l’ha esplorata in profondità, con la grazia del predestinato. Niko Romito è andato oltre Alajmo, non trasfigura ma concentra, se fosse un sarto sarebbe Armani che elimina le cuciture e impiega al massimo tre colori per valorizzare le forme, se fosse un architetto sarebbe Loos che faceva edificare facciate nude. Niko Romito è il vero capostipite della cucina italiana contemporanea, l’iniziatore di una corrente che si potrebbe persino definire “intimista” che ha influenzato la generazione immediatamente successiva, Parini, Gorini, la Klugmann.
Non c’è nulla di “Reale” nel senso di fastoso nella sua filosofia, il nome del ristorante, oggi diventato Casadonna Reale, ricorda una visita di Vittorio Emanuele III a Rivisondoli, il luogo delle origini dove il padre di Romito gestiva l’omonima trattoria.
A Rivisondoli, lontano da tutto, tra le montagne del Gran Sasso e della Maiella, nasce la nuova cucina italiana, l’oltrecucina, dove la nutrizione atavica è protagonista, dove il pane è un alimento con dignità di portata, dove a ogni sapore corrisponde un colore nella tavolozza del pittore.
L’assoluto di cipolle, zafferano e parmigiano è il manifesto di questa cucina. Il brodo è ottenuto unicamente dalla cottura della cipolla, i piccoli tortelli di parmigiano conferiscono l’umami e lo zafferano abruzzese appena tostato è l’oro nascosto, privo della foglia di Marchesi, perché da Romito ogni piatto è nudo.
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Pancotto alle mandorle e ricci di mare
Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN) 2016
Essere un grande cuoco è difficile, essere un grande cuoco di mare è ancora più difficile, essere il più grande cuoco di mare in Italia è pressoché impossibile, però qualcuno doveva pur riuscirci. E’ una storia strana quella di Mauro Uliassi, senigalliese doc, nato e cresciuto lontano dai luoghi dei clamori gastronomici, professore di scuola alberghiera e poi cuoco per amore (della moglie, che una sera lo convinse ad allestire un sontuoso banchetto). Negli anni novanta apre con la sorella Catia un ristorante “normale” sulla spiaggia, a lungo fa duecento coperti, fritture di calamari, spigole spinate al tavolo, matrimoni e compleanni, cose così. Poi, un po’ alla volta, si appassiona al nuovo, a Ferran Adrià su tutti, ma anche all’”improbabile trio” (così lo definisce lui) Marchesi-Vissani-Pierangelini e inizia a esplorare, legato a doppio filo alla sua storia emozionale, alle suggestioni cinematografiche e musicali che coltiva con costanza, con la consapevolezza del saggio che cammina piano e sano per arrivare lontano. Fino a interpretare nella sua chiave personale e immediatamente riconoscibile il gusto atavico del sale che infrange sulla roccia, dell’onda che si abbatte sulla rada del porto e della piuma di brughiera che si dipana dai fossi alle valli. Cucina di mare e di caccia, l’essenza di una porzione di territorio marchigiano filtrata attraverso la sua visione analitica e onirica al tempo stesso, coadiuvata da una brigata in cucina tra le più affiatate d’Italia.
Si dice che la terza stella, arrivata a sessant’anni, la debba al menu di caccia, ma la sua fama deriva dalla cucina di mare, nella quale è senz’altro primo in Italia, in Europa forse secondo solo a Angel Leon Aponiente a Cadice.
I suoi lab annuali, appuntamento irrinunciabile per i gourmet, nascono dalla frequentazione con Ferran Adrià e assemblano materia nobile e di recupero, amaro e acido, vegetale e quinto quarto.
La suggestione nasce dal ricordo, per diventare qualcosa d’altro.
Il pancotto è lo spunto ancestrale di terra che si trasforma in complessità marina, con il riccio intenso e ghiacciato, la doppia consistenza del pane e il doppio amaro della mandorla e della crema di cicoria.
Una sensazione istantanea che spiazza per la delicata armonia degli incontri, la sintesi di una cucina che si potrebbe definire “evocativa” secondo la personalissima e poco imitabile visione di uno chef.
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Cacio e Pepe in vescica
Riccardo Camanini, Lido 84, Gardone Riviera (BS) 2016
Da sempre si parla del “caso Camanini”. Quantomeno, da quando se ne parla, cioè da poco più di un lustro.
Non lo conosceva nessuno prima, ma in molti dicevano che a Villa Fiordaliso, sulla sponda bresciana del Garda, si mangiasse benissimo.
C’è voluta una delle poche teste pensanti nel gastrogiornalismo, cioè Andrea Petrini (altri si arrogano la paternità della “scoperta”: mentono) per dare risonanza internazionale al talento dello chef bergamasco. Al punto che oggi, più che della controversia sulle stelle in difetto, si parla soprattutto della sua ascesa a primo ristorante italiano nel mondo nella classifica degli sponsor che contano.
Da qualsiasi parte la si guardi, la verità risiede in un fatto incontestabile: Riccardo Camanini, come Romito, come Parini, come Uliassi, è artefice di una cucina originale e riconoscibile che alza sempre l’asticella.
La sua arma è a doppio taglio, la stessa che l’ha portato a essere negletto per anni e oggi il più amato dagli addetti ai lavori. La profondità che si esprime nei fatti e tralascia le troppe parole, la ricerca ossessiva del gusto definitivo dell’ingrediente che lo fanno sembrare più un intellettuale che un cuoco.
Non è un caso che Camanini sia stato allievo di Marchesi, che da Marchesi abbia appreso il senso della forma, del piatto come concetto nello spazio.
Non è neppure un caso che i suoi piatti più emblematici siano di quella pasta secca che Marchesi per anni aveva espunto dai menu per poi reintrodurre nella sua forma primordiale.
Lo spaghetto al burro e lievito di birra ha colpito persino il palato allenato di Alain Ducasse ed è stato esposto al MOMA di New York.
L’idea di cuocere la pasta secca nella vescica di maiale, tuttavia, è ancora più dirompente.
Se ne trova eco negli scritti di Apicio, che narrava di vesciche di maiale utilizzate come sacchi per trasportare alimenti.
La storia prosegue fino alla grande cucina francese, i Point e i Bocuse cuocevano i volatili nella vescica: celeberrimi i volaille de Bresse cotti in tale maniera.
Così facendo, Camanini getta un ponte tra antichità, Francia e Italia, in un percorso che solo un intellettuale in cucina avrebbe potuto.
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