di Roberto Curti
A Mugaritz un tempo si veniva accolti al tavolo da due cartellini: sométete e rebélate. Nessuna via di mezzo. Stare al gioco, o dissentire. Divertirsi, o fuggire disgustati. Oggi i cartelli non ci sono più, ma il principio è il medesimo. Dopo l’incendio di fine 2010 che gli ha semidistrutto il locale, Andoni Luis Aduriz ha ulteriormente radicalizzato la propria filosofia di cucina. Niente più scelta tra il tradizionale (si fa per dire) sustraiak e l’innovativo naturan, ma un unico menu con margini di variabilità in base ai prodotti sul mercato: una ventina di portate tra tapas iniziali, piatti veri e propri e dessert (165 euro più il canonico 8% di IVA). Alla fine della maratona, non si può certo restare indifferenti.
A Mugaritz ogni cosa è simbolica, significa sé e qualcos’altro, come i piatti spezzati a metà che campeggiano su ogni tavolo a richiamare la rottura con la tradizione o la luce al neon che attraversa trasversalmente la sala, a rappresentare il confine tra i due comuni di Errenteria e Astigarraga, a cavallo delle quali sorge il locale e a cui rimanda il nome stesso: Mugaritz, in basco “quercia di confine”. E forse proprio il trovarsi in un luogo di confine, letterale e metaforico, ha stimolato Aduriz a portare le proprie idee ancora più in là, trasformando nei mesi invernali il ristorante in un laboratorio dove creare piatti per l’anno successivo, sull’esempio di Adrià, e lanciandosi in nuovi e sempre più ambiziosi progetti multimediali, come la Degustación de Titus Andronicus a teatro con la Fura dels Baus.
Con queste premesse, parlare della cucina in sé, come se si sedesse al tavolo di un comune ristorante bistellato, è tutt’altro che semplice. In questo, i riconoscimenti internazionali (come il terzo posto nella «San Pellegrino World’s 50 Best Restaurants») rischiano di fuorviare. Dovendo fare un paragone di piacevolezza, pura e semplice gioia del palato, tra Aduriz e i fratelli Roca che nella chiacchierata classifica lo precedono corre un abisso, con i secondi a incarnare – almeno per il sottoscritto – un ideale di ristorazione in cui la ricerca e la tecnica sono finalizzate a un’armonia dei sensi portata alla massima sintesi. Qui a Mugaritz no: la sperimentazione, la «ricerca di un mondo nuovo di emozioni» attraverso la scelta e la trasformazione delle materie prime, spesso insolite e insolitamente lavorate, segue percorsi accidentati o rischiosi, talvolta chiari solo allo stesso Andoni. Di confine, appunto.
Certo, con i simboli si nutre l’immaginazione e si stimolano le sinapsi, ma non è detto che si mangi bene. E difatti non è difficile imbattersi in resoconti di gourmet perplessi, delusi, se non addirittura nauseati. Per quel che mi riguarda, venire a pranzo a Mugaritz – a pranzo, non a cena, in primis per il mirabile paesaggio basco, e in seconda battuta perché, sebbene ci si trovi a pochi chilometri da San Sebastian, di sera mi è capitato di smarrire la strada: immagino che per Aduriz anche questo possa avere un significato simbolico – è un’esperienza paragonabile, si parva licet, a quella di Orson Welles con il torero Antonio Ordoñez: «Orson lo seguiva in tutta la stagione, perché tre o quattro volte l’anno Ordoñez produceva il miracolo, era l’incarnazione della grazia, e Orson era disposto a sopportare 26-28 corride di merda pur di assistere a quei momenti di felicità impagabile» racconta Jesús Franco, suo assistente ai tempi del Falstaff. «Questa esperienza del balenìo improvviso della bellezza è abbastanza comune nella musica, nel jazz in particolar modo, e naturalmente al cinema».
E perché non nella cucina? Ecco: se penso ai piatti più memorabili ed emozionanti assaggiati negli anni, alcuni tra i primi che mi vengono in mente provengono proprio da questo occhialuto ex giovanotto ormai quarantenne, dalla magica torrija che per anni è stato il piatto-simbolo del locale (oggi purtroppo fuori carta) agli gnocchi di idiazabal, dalla reinterpretazione del gargouillou all’incredibile carpaccio di anguria, idiazabal e nocciole. Capolavori concepiti dalla stessa mente e usciti dalla medesima cucina che altre volte mi ha lasciato alle prese con veri e propri rebus gustativi.
Come sempre da queste parti, l’inizio è hard, per far capire che qui non si fanno prigionieri. Una “birra” (calda) di legumi tostati, accompagnata da “olive” (in realtà fagioli racchiusi in pasta d’olive nere a simularne la forma) al timo, che avrei volentieri scambiato con le “pietre edibili” e salsa aioli al tavolo accanto; cristalli di amido e zucchero sormontati da una mousse di txangurro; una croccante focaccia d’amido di kudzu alla griglia con purée di pomodoro (omaggio alla pizza, spiega sorridente il gentilissimo maitre Joserra Calvo – e già mi immagino i sapidi giochi di parole sul kudzu da parte di qualche lettore) e aeree nuvolette ricavate da brodo di maiale con bottoncini di zucca, da lasciare sciogliere in bocca.
L’insieme è molto El Bulli-style. Piluccando qua e là, torna alla mente la scritta che campeggia sul menu: «I nomi dei piatti non descrivono solamente ciò di cui sono composti, ma implicitamente ciò che noi vogliamo che esprimano… paesaggi e momenti evocativi, tecniche immaginarie e ingredienti nuovi». Forme, e nomi, come una cappa scarlatta sventolata dal torero Andoni. Altro che spettatori: siamo nel bel mezzo dell’arena.
Dimenticate le arzigogolate bizzarrie di Akelarre: l’apparenza è sempre complementare al concetto, a costo di sfidare il comune senso estetico. Accade con l’anemone di mare al vapore con midollo di bue, il cui aspetto ricorda quello di un poco invitante, verdastro uovo in camicia. Se Pedro Subijana ricrea forme bizzarre per convogliare sapori noti, qui non solo l’apparenza non rassicura, ma prelude a uno schiaffo gustativo che in principio lascia attoniti: paradossalmente è proprio il pane che si raccomanda di intingervi a chiudere il cerchio.
Più volte, presentando un piatto, viene posta la domanda se esso sia davvero ciò che appare essere. Ossia, se quel panetto cilindrico, spugnoso e simile a una caciotta, da scavare al centro e mescolare via via con olive, noci e cipolle confit sia realmente un “pane in cassetta”, o se quella specie di tomino filante e dall’odore penetrante accompagnato da funghi ed erbe saltati in padella sia effettivamente un “formaggio stagionato in corteccia”. Ovviamente la risposta è no, in entrambi i casi: il pane è di kudzu, mentre il formaggio è ottenuto con olio di semi di lino e latte di capra.
A differenza delle creazioni naif di Akelarre, qui il fulcro non sta nell’apparenza, nel gioco tra vero e falso, ma nel concetto che l’equivoco veicola, ossia il ritorno alla natura attraverso la (ri)scoperta delle materie prime.
Altrove il messaggio didascalico da cerebrale si fa pratico: come nella zuppa di semi, spezie ed erbe da completare al tavolo, dove tocca al commensale pestare gli ingredienti in un mortaio in cui verrà poi versato un aromatico brodo di pesce. Ma non pensate d’essere finiti in un austero ristorante macrobiotico-chic per gourmet alla ricerca di esperienze estreme (o meglio, sì, Mugaritz è anche questo, dopotutto: non vi troverete, a differenza che da Arzak, famigliole al completo in uscita domenicale, ottuagenario nonno con basco calcato in testa incluso).
La decostruzione e ricomposizione di forme e consistenze è accompagnata spesso da uno spirito scherzoso, anche se lo humour surreale di Andoni può spiazzare: ricordo reazioni perplesse davanti a un piatto di qualche anno fa, presentato da Joserra come «i ravioli con la sfoglia più sottile del mondo» (così sottile da essere… inesistente). Nel caso di Shhh… ¡Muerdete la lengua!, la soluzione dell’indovinello sta nel nome stesso.
Vedendolo, è difficile credere che quella specie di arbusto croccante sia davvero lingua di vitello (cotta, fatta a listarelle, privata di parti grasse e tessuto connettivo ed essiccata, accompagnata da aglio e cipolla caramellata), sebbene il messaggio trasmesso dalle papille vada appunto in quella direzione. Ecco, in casi come questo Andoni parte per la tangente: il messaggio sovrasta il mezzo, il gioco è cervellotico e lascia il tempo che trova. Meglio mordersi la lingua.
Chi a questo punto – e immagino non saranno pochi – ci abbia già messo una metaforica pietra sopra, sappia però che tra una sciarada e l’altra c’è spazio per esecuzioni di grande armonia e delicatezza come l’iniziale besciamella di cavolfiore e cannella, il filetto di merluzzo servito con germogli di cavolo stufati, la textura de pescado de bajura, le mammelle brasate in salsa d’anice.
E la sezione dolce, che replica in sedicesimo l’andamento della prima parte, si conferma uno dei punti forti di Andoni. Il colpo vincente è all’inizio, con le noci rotte, tostate e salate, crema gelata di latte di capra, petali edibili e gelatina d’Armagnac (nascosta dentro i gusci edibili di cioccolato). Il resto varia dal divertissement estemporaneo – le finte stecche di vaniglia, in realtà felce, da intingere in crema di cioccolato e vaniglia – alla genialata imprevista (la empanadilla húmeda de brioche ripiena di nocciole tritate, servita su una ciotola forata posta su un’infusione di foglie di mandarino: da mangiarne una dozzina) per finire con golosi coni edibili (cristalli di kudzu anche qui) con panna montata, fiori e scaglie di cioccolato.
Ma i piatti migliori sono quelli in cui la matericità degli ingredienti è esaltata senza mezze misure, i gusti (e gli aromi) si fanno prepotenti. È il caso degli spaghetti di grasso di maiale con estratto di arraitxiki (scorfano) e riso soffiato. Idea semplice ma vincente, che ribalta il concetto di noodles, e trasforma il maiale da condimento in ingrediente primario: gli spaghetti sono realizzati con la cotenna.
Ancora più estrema la coda di maialino – cotta, tagliata longitudinalmente, disossata, e finita alla plancha per ottenere croccantezza – in olio di semi tostati e con foglie croccanti di miglio (non solo per la textura, ma anche a rappresentare le foglie della quercia da cui il maiale trae nutrimento, nell’immancabile richiamo simbolico), dove il gioco di consistenze tra la crosta croccante e la grassezza sottopelle è acuito da un brodo denso, quasi colloso, di stupefacente concentrazione gustativa. Chiudo gli occhi e mi ritrovo bambino a sgranocchiare ciccioli nei corridoi di un salumificio di Langhirano, tra prosciutti appesi, ossi di stinco di cavallo annusati dagli adulti con aria pensierosa e il profumo di carne fresca e grasso rancido che invade le narici. Una madeleine più bertolucciana che proustiana, ma va bene così: ai miracoli non si comanda.
Alla prossima corrida, Andoni.
Otzazulueta baserria Aldura-aldea, 20
20100 Errenteria, España
607 72 61 23
www.mugaritz.com
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