Il critico e scrittore Roberto Curti, redattore del mensile “Blow Up”, collabora al dizionario dei film “Il Mereghetti” edito da Dalai e ha pubblicato numerosi volumi (l’ultimo in ordine cronologico, “Fantasmi d’amore”, sul gotico italiano nel cinema e nella letteratura, esce proprio in questi giorni per Lindau). Coltiva anche la passione per l’enogastronomia: viaggiando spesso in Italia e all’estero per festival o altre manifestazioni, ha l’opportunità di visitare con regolarità ristoranti stellati e non. Di ritorno da San Sebastian, dove si reca da più di un decennio un paio di volte l’anno per il festival internazionale del cinema e quello novembrino dedicato al fantastico e all’horror, ha messo nero su bianco e con questo articolo inizia la sua collaborazione al nostro blog.
di Roberto Curti
Anche se si è ad appena un’ora d’auto da San Sebastián, e a una decina di minuti dall’arteria autostradale che attraversa il territorio basco, arrivare nel minuscolo villaggio di Axpe è come approdare in un’altra era. Una manciata di case sparse su un declivio; poco oltre, maggesi e pecore al pascolo, e i monti che incombono, arginando le nuvole. Non si arriva qui per caso: si viene in pellegrinaggio. Asador Etxebarri, il regno di Victor Arguinzoniz, si affaccia sulla piazza principale – l’unica – del paese. Da quando il cuoco delle griglie è balzato agli onori delle cronache internazionali (memorabile l’articolo di un Xavier Agulló in trance mistica su un vecchio Lo mejor de la gastronomia), Etxebarri rappresenta, per il gourmet sfiancato da cotture a bassa temperatura, spume, abbinamenti astrusi e attentati papillari, una valvola di salvezza griffata, e al contempo una nuova sirena. Un cuoco che forgia la materia prima – la migliore possibile – a fuoco vivo, alla brace, ma su griglie e padelle che si disegna da sé e con tipi di legna che variano a seconda del cibo cucinato. Un Efesto dei fornelli, metà artista e metà artigiano. Un moderno primitivo, se vogliamo. Di più: un rivoluzionario, vessillifero di una «rivoluzione impensata, impossibile, distante da titoli e acrobazie», perché (cito Agulló) basata su un solo elemento: la natura, il fuoco. E con il paradossale esito di ricondurre ai sapori bruti della materia, ma con un conto da ristorante gourmet.
Entrando, al pianterreno della bella casa in pietra a due piani, pare d’essere capitati in una sidreria, con bancone e avventori del posto che ti lanciano rapide occhiate incuriosite, prima di tornare alle loro chiacchiere.
I seguaci di Victor sono attesi al piano di sopra, in un’ampia sala dall’alto soffitto con soppalco. L’ultima volta che mi sono seduto alla tavola di Victor, era il 2007, l’unico altro commensale era un solitario giapponese in missione gustativa, con tanto di fotocamera digitale e taccuino. Oggi la sala è già piuttosto affollata, e si riempirà nel corso del pranzo. Con l’eccezione di un paio di tavoli, si parla inglese. Un signore di mezza età si destreggia con un iPad, fotografando il fotografabile. Le cameriere non si scompongono.
A Etxebarri funziona così: un menu di due pagine, a sinistra le disponibilità del giorno, a destra la degustazione. Un tempo quest’ultima opzione non era neppure per iscritto: bisognava farne esplicita richiesta alla cameriera al momento della comanda, sentendosi quasi dei carbonari davanti allo sguardo divertito e un po’ incredulo di rimando. Evidentemente l’afflusso di gourmet dallo stomaco capiente ha fatto sì che Victor si adeguasse, dalla coltelleria Laguiole in su.
Niente benvenuti dello chef o assaggini, quel che è scritto è quanto verrà servito. Si inizia non più col commovente pane burro e chorizo casereccio, ma con una crema di fagioli rossi appetitosa e nulla più.
Pane e alici salate: il pesce, appena spennellato di una bagna di olio aglio e prezzemolo, è ciccioso e primario nel sapore. Il crostino però, ovviamente grigliato, sconta un eccesso di durezza, rendendo difficoltoso l’approccio.
L’ostrica, presentata nella conchiglia su un letto di alghe bollite e con una schiumetta di civettuola concessione alla modernità, conserva il gusto iodato e guadagna un lieve sentore di fumo: è impeccabile, ma non per tutti i palati.
La mia compagna di desco e di vita opta per il foie marinato in casa: buono, certo, ma foie di pari se non superiore livello se ne trovano, eccome.
Meglio soprassedere sul pane abbrustolito all’uvetta in accompagnamento: forse la cucina risente dell’impegno, i tempi per i commensali si allungano sensibilmente.
Seguono i gamberi di Palamós: due, enormi, nudi, accoppiati su un rettangolo di vetro. Minimalismo hard. Notevoli, eppure la vocina nella mia testa insinua che, d’accordo, materia prima di altissimo livello, ammirevole sobrietà concettuale ed esecutiva, ma il tutto comincia a essere un po’ monotono.
Sensazione non confermata né smentita dall’arsella con fagioli bianchi, forse perché le dimensioni monstre del mollusco intimidiscono e l’abbinamento è effettivamente a prova di critica.
I successivi funghi (più, non accreditate, melanzane a tocchetti) ricacciano in gola ogni perplessità: il piatto migliore della giornata.
Di nuovo un altro matrimonio classico, crema d’uovo con tartufo bianco (non profumatissimo): alta scuola, certo, ma il dubbio torna ad affacciarsi.
Perché a questo punto uno scarto, un’invenzione, una provocazione sarebbero i benvenuti. E invece la triglia su crema di patate conferma le perplessità: vuoi per la crema in accompagnamento, evanescente ai limiti dell’insapore, vuoi perché una delle due triglie, per un ovvio errore di cottura, arriva a tavola con la pelle semibruciacchiata. E perché, a dispetto delle mille diavolerie tecniche escogitate da Victor, le padelle sforacchiate a colpi di laser, la legna personalizzata, l’attenzione per le texturas e tutto il resto, a lungo andare affiora un’omogeneità gustativa che, se da un lato certifica il rigore e la coerenza delle scelte di Arguinzoniz, dall’altro appiattisce la successione dei piatti.
Arriva la chuleta, al sangue come Dio comanda (orrore al tavolo accanto: rimandata in cucina, torna ben abbrustolita e tristemente ingrigita; se si vuol essere carnivori, lo si sia fino in fondo) e accompagnata da una frugale insalatina o, su richiesta, da straordinari pomodori cuore di bue. Nulla da dire: la miglior carne bovina in circolazione… dopo lo straordinario filetto di manzo di Pino Cuttaia, che in comune ha l’affinità del gusto e in più l’eleganza data dall’olio di cenere.
Infine, i postres. Delizioso il gelato alla riduzione di latte (sulla stufa), dove finalmente la filosofia-Etxebarri apporta una spinta inedita al gusto, più tradizionale la torrija (accompagnata da una ridondante salsa al cioccolato): non c’è confronto con quella, emozionante, di Andoni Luis Aduriz.
E dunque? Un’esperienza appagante ma contraddittoria. Rispetto alle visite precedenti – dove c’erano stati colpi da k.o come il caviale alla griglia o le strepitose angulas – mi restano tre cose. Una conferma: che da Etxebarri la materia prima, ittica e non, è di livello assoluto.
Un’ipotesi: che il “concetto” su cui si fonda la cucina di Victor Arguinzoniz alla fine funzioni meglio su due/tre piatti alla carta, in base alla disponibilità del mercato e di stagione, e mostri invece la corda sulla lunghezza del menu degustazione. E la sensazione che, come in tutte le rivoluzioni, le braci della passione prima o poi siano destinate a raffreddarsi. Per i condottieri come per i proseliti.
Asador Etxebarri
Plaza San Juan, 1
48291 Atxondo- Bizkaia
Tel. (+34)946583042
www.asadoretxebarri.com
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