di Carmen Autuori
Provate, in questo periodo in cui il sole caldo settembrino ci regala ancora l’illusione dell’estate, a passeggiare tra i borghi cilentani. Se sarete fortunati, sui balconi ma anche su un muretto di pietra che delimita la strada oppure nei piccoli giardini, polmoni verdi che spuntano quasi miracolosamente tra una casa e l’altra, potrete ammirare distese di “spaselle”, vassoi formati da vimini intrecciato o da canne secche, su cui sono adagiati in fila, con una precisione quasi matematica, i fichi tagliati a metà, spesso ricoperti da un velo di tulle per proteggerli dagli insetti, con l’interno rivolto al sole che qui si chiama proprio “secca fichi”: già questo varrebbe la visita.
L’usanza è una delle eredità più “dolci” che ci ha lasciato la civiltà greca che introdusse nella zona a Sud di Salerno questo frutto intorno al VI secolo a.C.. I fichi essiccati al sole costituivano sia il dessert dei ricchi coloni (andavano infatti a completare la cosiddetta “terza tavola”) ma nello stesso tempo erano anche il pane dei poveri per l’alto valore energetico. Molto stretto anche il loro rapporto con il sacro: corone di fichi secchi venivano offerte sugli altari di Zeus Meilichos, (letteralmente Zeus dolce come il miele). Pare, inoltre, che anche Diogene e Platone ne fossero particolarmente ghiotti.
In epoca romana Catone, e poi Varrone, raccontavano del grande uso che se ne faceva nel Cilento e nella Lucania, tanto da costituire la base dell’alimentazione della manodopera impiegata nei campi. Ancora nel “Quaterno doganale delle marine del Cilento” (1486) è documentata una fiorente attività di produzione e di commercializzazione di fichi secchi che, già all’epoca, erano riconosciuti dal resto d’Italia come prodotto di pregio.
Si capisce, dunque, come questa millenaria influenza abbia contaminato non solo la gastronomia cilentana ma anche i modi di dire, spesso dispregiativi come “non vali un fico secco” oppure “fare le nozze con i fichi secchi” ad indicare chi volesse realizzare un qualcosa pur non avendone i mezzi.
Fino all’ immediato Dopoguerra i fichi secchi costituivano la strenna dei bambini la notte di Natale, quando tornavano dalla messa di mezzanotte oppure il frugale pasto dei contadini accompagnati da una fetta di pane e consumati direttamente nei campi. Poi arrivò Angel Keys che era solito consumarne due al giorno, in genere la sera, e così cominciò il “riscatto” dei fichi secchi che furono riconosciuti tra gli alimenti principe della Dieta Mediterranea. Nel 2006 arriva la Dop per il “Bianco del Cilento”, uno specifico ecotipo della cultivar Dottato nella versione secca. Si caratterizzano per il colore giallo chiaro della buccia che una volta essiccati e passati in forno diventa marroncino. Al gusto sono particolarmente zuccherini.
Secondo il disciplinare, il “Bianco del Cilento” si produce in 68 comuni nella zona a Sud di Salerno, compresa nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, che va da Agropoli fino al Bussento.
Ma ciò che li rende particolarmente pregiati, oltre alla cultivar vera e propria, sono le fasi di essiccazione e di lavorazione che ancora oggi si svolgono, anche nelle aziende che ne producono ingenti quantità, come secoli fa.
Si trovano confezionati al naturale, a corona, a sfera, a croce, “steccati” cioè infilati in stecche di cannuccia, farciti in tantissimi modi. La versione più classica prevede una farcìa a base di noci o mandorle ma anche di buccia d’arancia, mandarino o finocchietto selvatico. La fantasia degli artigiani ha prodotto, soprattutto negli ultimi anni, tante varietà che ne fanno un vero e proprio dolce. Ci riferiamo ai fichi ricoperti di finissimo cioccolato, bianco, fondente o al latte. Oppure a quelli in vasetto immersi in uno sciroppo a base di rum.
Molto prezioso per i tempi ed i costi di lavorazione , ma davvero squisito, è il fico “monnato”, cioè privato della buccia.
Per recuperare una delle ricette cilentane più antiche dei fichi essiccati, siamo andati da Stefania Damato che custodisce il prezioso ricettario della mamma Ines Menduti, cilentana doc originaria di Castellabate. Il procedimento è rimasto immutato nel corso degli anni, così come gli ingredienti a cominciare dalle foglie di fico che vengono usate alla base delle stecche prima di essere infornate, in modo da rilasciare, in cottura, un aroma che sa di antico e di tradizioni immutate nel tempo.
Fichi secchi ‘mpaccati
Ricetta di Ines Menduti
2 kg di fichi
500 g di gherigli di noci o nocciole
50 g di semi di finocchietto selvatico
Misto di bucce d’arancia, limone e mandarino
Foglie d’alloro
Foglie di fico
Procedimento
Tagliare a metà i fichi bianchi lasciandoli uniti dalla parte del picciolo e disporli ordinatamente su delle grate, meglio se di materiali naturali, avendo l’accortezza di coprirli con un velo prima di esporli al sole e di ritirarli al tramonto. Ci vorranno circa due settimane.
Una volta pronti, tritare i gherigli di noce, le bucce di agrumi e mescolare con il finocchietto. Procedere con la farcitura di due coppie di fichi con il mix di agrumi e finocchietto. Proseguire con la fase della ‘mpaccatura ovvero infilzarli a coppia su degli stecchi, alternando con delle foglie di alloro. Lavare il tutto con acqua e succo degli agrumi. Farli sgocciolare bene e, una volta asciutti, disporli su una teglia da forno precedentemente rivestita da foglie di fico. Infornare a 170 gradi per circa 40 minuti (girandoli a metà cottura). Sfornarli e, ancora caldi, conservarli in una cassettina di legno con una grattugiata di buccia di limone e qualche seme di finocchio. I fichi devono rimanere a dimora fino al Natale, per questo la signora Ines usava approntarli non appena erano giunti a maturazione i primi mandarini.