di Gaspare Pellecchia
Il 22 settembre scorso si è tenuta a Roma presso l’Università Gregoriana la presentazione del libro di Francesco Sisinni “Ditirambo lucano”. Evento nell’evento (condotto da Paolini, Davide, “il gastronauta” del Sole24): dietro la presentazione del libro, in realtà, hanno voluto definitivamente sancire, e ufficializzare, un loro interesse a un progetto scientifico integrato sull’Aglianico. Ok, indovinate chi? I Feudi di San Gregorio, of course.
Il “progetto Aglianico” difatti vedrà un pool di scienziati (tra cui l’Università di Napoli e di Milano) al lavoro su quattro “modalità espressive” del vitigno: i tre areali del Vulture (perciò il verso greco diventa lucano…), del Taburno, di Taurasi e infine la spumantizzazione (il teorema selossiano). Il primo a parlare sarà Sisinni stesso che ci ricorderà l’impegno di Pellegrino Capaldo nel restauro del Colosseo; la parola passerà poi a Gerardo Bianco: insospettabilmente è un bel discorso il suo, interessante e ricco, che ci ricorderà di Orazio e di Virgilio e del loro differente modo di intendere la viticoltura e il vino stesso (sì, diciamocelo, il tema di un libro sul vino, per giunta “immerso” in periodo pre-cristiano, era veramente scomodo da trattare alla Gregoriana… ma l’onorevole Bianco se l’è cavata alla grande). Veniamo ai tre interventi clou, quelli per i quali il sottoscritto è andato fin lì. Antonio Calò, Attilio Scienza e Luigi Moio. Il primo, il presidente dell’Accademia della vite e del vino, parlerà dell’intricatissimo rebus della ricerca delle origini di un vitigno (in tal senso abbatte, per lo meno a parole, il mito dell’autoctonìa), il Primitivo, ad esempio, sarebbe ungherese, secondo una recente ricerca citata da lui. Meglio parlare di fenotìpi allora, cioè non di Dna, bensì di comportamento. Queste cose saranno meglio chiarite da Scienza: innanzi tutto Aglianico viene dallo spagnolo Llanico, cioè del piano (nozione, in verità, ampiamente accolta già dal prof. Pasquarella anni fa); l’Aglianico nasce per introversione genetica, che uno dei tre “modi” di “nascita” di un vitigno; pezzi di Dna dell’Aglianico sono uguali a viti selvatiche meridionali (materiale vegetale italico-etrusco) da cui deriverebbero alcune sue note olfattive più animali. Ancora, ciò che il “progetto Aglianico” dei Feudi andrà a studiare non sarà solo l’origine genetica del vitigno, quanto soprattutto la fenotipìa, cioè come si comporta la pianta effettivamente. Lo splendido intervento del prof. Scienza termina con un intervento chiarificatore sulla pedologia e la geologia dei suoli che interessano l’Aglianico: è inutile separare suoli tipo Flysch (Scienza non l’ha detto, ma il riferimento è ad alcuni eccellenti suoli Irpini, ma non vorrei sbagliarmi) da suoli effusivo-vulcanici (anche qui contestualizzo io: parliamo del Vulture) in quanto spesso sotto i primi si sono fatti strada i secondi creando uno speciale amalgama pedologico, anche questo ben intricato ma non impossibile da indagare, soprattutto sotto il profilo sensoriale dei vini prodotti sui rispettivi terreni. Chiude Scienza con un’amara constatazione: il Sud, enologicamente parlando, è stato da sempre immenso serbatoio solo di tre cose: alcol, acidità e colore e, per ora, non di cultura. La parola passerà, infine, a Luigi Moio, il professore dell’Aglianico, lo scienziato campano invidiatoci da tutto il mondo. Parlerà per un paio di minuti, non di più, chiarendo un solo concetto sul vino che verrà: parlerà francese.
Chiosa mia personale. Questa dei terroir monovitigno (o al limite bi-vitigno o tri-vitigno) è una cosetta che mi attira da un buon cinque anni. Viene paura a dirlo, ma è una specie di traguardo a cui, da un paio di millenni, pare ci si debba arrivare se si vuole, realmente, parlare di territorio (cioè di cultura e di qualità) e non di vitigno (cioè di mercato e di quantità).Ci meditiamo?
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