I corsi e ricorsi storici della zuppa di carnacotta
di Carmen Autuori
Il tanto, mai come quest’anno, sospirato inverno è arrivato “come comanda Iddio”, direbbe il grande Eduardo. Si avverte allora il desiderio di cibo corroborante che riscaldi lo stomaco e, talvolta il cuore, perché denso di tradizione e di memoria. Questa volta non parliamo di consommé, di semolino o di zuppe vegetali ma della voluttuosa zuppa di carnacotta, un misto di trippe condita con sugo di pomodoro, aromi vari , spesso accompagnata da pane biscottato, le cosiddette freselle.
Secondo Massimo Montanari, studioso di storia dell’alimentazione: “La storia del gusto è una storia strana. L’organo a cui viene associato è spesso la lingua, ma in realtà colui che decide cosa sia buono e cosa no è il cervello, un organo culturalmente (e perciò storicamente) determinato, attraverso il quale si imparano e si trasmettono i criteri di valutazione. Perciò questi criteri sono variabili nello spazio e nel tempo”.
Tale definizione del gusto spiega la diversa percezione che si è avuta nei confronti delle frattaglie nel corso dei secoli.
Dal momento in cui l’uomo è divenuto cacciatore, il quinto quarto ha cominciato a far parte della sua alimentazione. Il vero momento di gloria risale all’antichità, momento in cui attraverso l’analisi delle interiora l’uomo entrava in contatto con la divinità. Prima gli Etruschi e poi i Romani furono i rappresentanti più degni di questa pratica.
Ma prima di addentrarci nei corsi e ricorsi storici delle frattaglie è necessario spiegare cosa s’intende per quinto quarto.
Nella macellazione l’animale viene diviso in quattro quarti, due anteriori e due posteriori, il resto – cioè tutte quelle parti che pur non facendo parte della carcassa sono commestibili – costituiscono il quinto quarto.
Esiste un’ulteriore distinzione tra frattaglie rosse (fegato, cuore, milza, rene, lingua, polmone ed esofago), frattaglie bianche (cervella, animelle, schienali e pajata) e pseudo frattaglie (testina, guance, palato, orecchie, piedini, coda, mammella, testicoli, intestini o budella e midollo). Le trippe, cioè le preparazioni a base di stomaco, fanno parte di una categoria a sé.
Considerate cibo per palati raffinati sia in epoca medievale che rinascimentale, dalla fine del Seicento se ne registra un considerevole calo del consumo, probabilmente dovuto all’allontanamento dei macelli dal centro delle città, per cui le interiora rimangono appannaggio del popolo per il loro basso costo.
A Napoli la loro storia si identifica con quella dei suoi vicoli e del suo popolo che ne è l’anima.
Così, la fame atavica del popolo napoletano trovava ristoro trasformando in piatti succulenti le interiora che, al grido di “Les entrailles, magnatavelle“, i cuochi gettavano dalle finestre delle cucine di corte a rumorose, e talvolta volgari, popolane in trepida attesa. Da qui il termine “Zandraglia” che rappresenta una delle peggiori offese che un napoletano possa rivolgere ad una donna che non possiede le qualità tipiche del gentil sesso ossia la volgarità dei modi.
La cultura delle interiora è rimasta sempre ben radicata a Napoli, a differenza di altri luoghi dove, solo da pochi anni, una certa borghesia alla ricerca di gusti “alternativi” le ha rivalutate insieme a tanti chef anche stellati.
Fino a qualche anno fa non era difficile imbattersi, soprattutto alla Pignasecca o a Piazza Pendino, nel carnacuttaro, il venditore di frattaglie cotte e servite bollenti nel loro brodo, aromatizzate da qualche odore e colorate con un po’ di pomodoro. Questi non era da confondere con il venditore di ‘o per e ‘o muss o con il ventrajuolo, la cui merce era costituita da vari tipi di trippa servita semplicemente lessa e condita con sale e succo di limone.
Era soprattutto il quartiere Pendino, però, il luogo prescelto dai carnacuttari. Della notizia se ne trova traccia anche nel diario, datato 1917, del ministro Antonio Salandra. “Nel quartiere Pendino, ch’è nella Napoli storica, uno dei quartieri di Masaniello, vi erano le botteghe di carnacottaro. Non avevano porte, perché erano aperte notte e giorno, il loro calderone perennemente accoglieva nella sua anima bollente la zuppa di carnacotta che nel basso dialetto assume uno strano sinonimo. Viene detta la marescialla”.
Oggi il mestiere di carnacuttaro è pressocchè scomparso. Resiste, per fare qualche esempio, Fiorenzano alla Pignasecca con la sua Tripperia e Trattoria Le Zandraglie oppure L’Antica Tripperia ‘O Russ, in via Sant’ Eframo Vecchia, nei pressi di piazza Carlo III, tra le più famose. Non è raro, invece, incontrare in giro per la città i venditori di ‘o per e muss e qualche ventrjuolo.
La ricetta di seguito riportata è tratta da “La Cucina Napoletana” di Jeanne Carola Francesconi.
Zuppa di carnacotta
Ricetta di Jeanne Carola Francesconi
Ingredienti per 4 persone
1 kg di trippa precotta
500 g di pelati San Marzano
1 carota
1 cipolla
1 costa di sedano
1 spicchio d’aglio
Prezzemolo
Olio evo
Sale
Pepe
3 cucchiai di Parmigiano grattugiato
2 cucchiai di Pecorino grattugiato
Bollire per circa un’ora la trippa con sedano, carota, mezza cipolla, aglio ed un poco di sale. Nel frattempo soffriggere in un abbondante giro d’olio il resto della cipolla tagliata a velo. Aggiungervi i pelati, il sale ed il pepe e lasciar cuocere per circa 10 minuti. A questo punto unire la trippa tagliata a listarelle e far insaporire per almeno 30 minuti. Fuori dal fuoco, aggiungere i formaggi e servire il piatto caldissimo.
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