di Carmen Autuori
foto Pina Pepe
Affonda nella notte dei tempi la raffigurazione della Natività e trova la giusta collocazione in una struttura sospesa tra realtà e fantasia, mito e religione, terra e cielo, Paradiso ed Inferi. Questo luogo simbolico si chiama Presepe ed è il pilastro del Natale, del nostro Natale.
Presso i popoli pagani, la celebrazione della festività della rinascita, che con l’avvento del Cristianesimo ha assunto il nome di Natale, coincideva con il solstizio d’inverno ed era legata alle feste propiziatrici di fine anno. Di fronte alla natura che non genera più frutti, alla terra arsa e brulla, l’uomo viene preso da un profondo senso di angoscia. Ma la notte più lunga dell’anno è anche quella che precede un nuovo ciclo: da essa ricomincia la lenta ascesa del sole e la progressiva rinascita della natura. La vita vince la morte.
Già le antiche religioni, elaborarono un concetto salvifico di un “eroe celeste” che inaugura sulla terra un’epoca di pace e prosperità. Questo eroe è il bambino che, secondo gli Egizi, si chiamava Horus,secondo i greci Dioniso, secondo i persiani Zoroastro. Anche Virgilio nella IV egloga annuncia la nascita di un “puer” straordinario che avrebbe realizzato la perfetta coesistenza tra umano e divino, nella religione cristiana è il Bambino Gesù.
Sebbene a partire dal IV secolo il Cristianesimo venga riconosciuto come religione dell’Impero, esso non andò a sostituire le religioni preesistenti, ma semplicemente s’intersecò con esse. Così, il giorno di Natale contestualmente alla nascita di Cristo, si continuava a celebrare la nascita di un’antica divinità solare. E proprio nella tradizione presepiale popolare napoletana che la contaminazione di sacro e profano risulta più evidente.
La struttura portante si sviluppa seguendo un itinerario di un viaggio misterioso:quello della discesa agli inferi che, però, non manca mai di elementi di collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti e ne sono esempio il pozzo, la fontana o il ponte. Esso, però, non è solo la celebrazione del mistero della nascita del Bambino che sconfigge la morte, ma anche quella della vita quotidiana di un popolo e della sua atavica fame che, forse, attribuisce al cibo lo stesso carattere di sacralità della nascita di Cristo. Ed ecco dunque che nel nostro viaggio ci imbatteremo in osterie, cantine, forni e mulini in una sorta di “peregrinatio” gastronomica che travalica il tempo e lo spazio. Ma andiamo per gradi.
Partendo dal punto più alto, accanto al castello di Erode, troviamo il mulino la cui ruota che gira inarrestabile rappresenta lo scorrere del tempo, mentre la farina con il suo colore bianco riporta alla mente la purezza e dunque il mistero della verginità della Madonna.
Proseguendo questo cammino che è anche onirico, come dimostra la presenza di Benino il pastore dormiente che in realtà non dorme ma “sogna” la nascita del Salvatore, si arriva al borgo, il luogo non luogo, pullulante di vita e di venditori di ogni genere di mercanzia. Tra essi, dodici, che rappresentano i mesi dell’anno, non possono mancare. A gennaio corrisponde la figura del macellaio- salumiere che al pari dell’oste che incontreremo in seguito, è un elemento demoniaco legato ai piaceri della gola mentre febbraio è collegato al venditore di formaggi che nell’atto di rimestare il latte cagliato, simbolicamente si riferisce al tempo che, come il formaggio o meglio la ricotta, ha bisogno di fermentare per crescere. Ad avallare questa tesi è il movimento circolare del braccio che ne indica lo scorrere. Dato che ogni categoria alimentare è collegata ad un mese avremo: a marzo il pollivendolo, ad aprile il venditore di uova, simbolo di rinascita, a maggio la coppia di sposi con il cestino di ciliegie, a giugno il panettiere, a luglio il venditore di pomodori, ad agosto il venditore di cocomeri, a settembre invece il venditore di fichi e di semi alimenti, questi, direttamente collegati al mondo dei morti e quindi più di altri rappresentativi del Natale che, con il suo tempo sospeso, annulla la differenza tra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti appunto. In sostanza la stessa funzione dei dolci natalizi che hanno semi e frutta secca come ingrediente principale. Sempre collegato ai fichi è l’uomo che su una scala è intento a raccogliere questi frutti dall’albero. E’ raffigurato pallido e con i capelli bianchi, di quel pallore che allude alla morte.
Ad ottobre appare il vinaio e il cacciatore mentre a novembre il venditore di castagne. Il pescivendolo o pescatore rappresenta dicembre, il mese della nascita del figlio di Dio che è soprattutto pescatore di anime. Attenzione però, nel presepe napoletano sono svariati i venditori di pesce: abbiamo l’ostricaro, il venditore di baccalà che, al pari del capitone, è protagonista della cena della Vigilia, questo perché a differenza della carne, il pesce in genere non è veicolo delle forze demoniache che si aggirano nel mondo nei dodici giorni precedenti al Natale.
Ad introdurre il corteo dei pastori che si reca alla grotta c’è Cicci Bacco ‘ngopp ‘a botte: è un pagano tra i cristiani. La sua origine è molto antica e risale al culto del vino e alle antiche divinità pagane, come Bacco.
Dall’aspetto grosso e dalle guance rosse, talvolta è posto davanti alla cantina con un fiasco in mano, oppure è rappresentato seduto su un carretto pieno di botti di vino, preceduto e seguito da un corteo di uomini che con zampogne e pifferi scandiscono gli orgiastici ritmi dionisiaci. La scelta della collocazione di questo personaggio sul presepe non è casuale, ma sta proprio ad indicare la vicinanza tra sacro, i pastori, e profano. E’la sottile linea che separa l’eterna lotta tra il bene ed il male.
Siamo arrivati alla grotta che nel Presepe settecentesco assume la forma di un tempio diroccato delimitato, a destra e a sinistra, da colonne spezzate a voler affermare, ancora una volta, la vittoria della religione cristiana sul paganesimo di cui la colonna è simbolo. Ma non solo, la colonna spezzata sta anche ad indicare l’orgoglio dell’uomo che ha voluto elevarsi a livello di Dio e quindi, sconfitto, si macchia del peccato di “ubris”.
Sullo stesso piano, e non a caso, troviamo l’osteria, il luogo demoniaco per eccellenza e dai significati complessi. Essa in primo luogo ricorda i rischi del viaggiatore ed in particolare allude al viaggio di Giuseppe e Maria in cerca di alloggio. Ma, soprattutto, è il luogo per antonomasia del rituale legato al cibo dove ci si abbandona ai piaceri della carne.
E’ la vita materiale che si contrappone a quella spirituale. Salsicce, pezzi di carne appena macellata ancora grondanti sangue, enormi piatti di maccheroni che gli avventori divorano con le mani come Pulcinella che è sempre seduto ad uno dei tavoli, pizze, caciocavalli ed ogni ben di Dio, un vero e proprio paradiso dei golosi; una sorta di albero della Cuccagna al pari di quello edificato fino alla fine del Settecento a Largo di Palazzo dove, tra gli sguardi divertiti della nobiltà, la plebe poteva saziare la sua atavica nemica: la fame.
Sulla soglia è rappresentato l’oste, con il grembiule macchiato di sangue sul ventre prominente, il viso rubicondo su cui troneggia un’enorme escrescenza a rappresentare le corna del Diavolo.
Al pari dell’oste troviamo in questo luogo Maria ‘a purpett, una donna subdola che attira gli avventori per avvelenare i mariti infedeli con le sue polpette. In realtà anche le polpette sono simbolo dei rituali di scambio tra vivi e morti. Infatti in quelle prettamente napoletane non possono mancare l’uva passa ed i pinoli, ancora una volta frutta secca alimento preferito dai defunti che sposano la carne che, invece, rappresenta il cibo dei vivi per eccellenza. E le polpette sono protagoniste anche della minestra di cardone, cibo tipico beneventano e primo piatto del pranzo natalizio, dove questa particolare verdura viene arricchita da pollo sfilettato, uova sbattute e, ovviamente, polpette.
Sempre all’interno dell’osteria troviamo zì Vicienz e Zì Pascal compagni di bevute e chiacchiere, spesso in stato di euforia grazie alle enormi quantità di vino, in realtà simboleggiano rispettivamente il Carnevale e la Morte, ma anche i due solstizi.
Accanto a questo luogo di perdizione c’è il forno perché il pane, oltre ad essere simbolo di Cristo e dell’Eucarestia, ricorda al mondo che non di solo pane vive l’uomo.
Non mancano i giocatori di tombola i cui numeri secondo la cabala corrispondono a molti degli elementi e dei personaggi del Presepe. Essi sono sempre raffigurati intorno ad un tavolo imbandito di dolci, susamielli, roccocò, torrone quasi ad ingolosire i defunti che vegliano su questo gioco che è soprattutto onirico e si pone in una dimensione altra da quella reale.
E così tra grappoli di pomodorini del piennolo, poponi (meloni invernali), banchi di acquafrescai, pizze “oggi a otto”, friggitrici di paste cresciute ancora una volta il Presepe, luogo non luogo, mostra al mondo il suo volto più umano, quello del cibo e della simbologia legato ad esso.