Calpestate due tradizioni gastronomiche millenarie del Sud
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Enzo Monaco
Presidente dell’Accademia Italiana del Peperoncino*
Una nduja fatta con pepe nero, fegato, e polmoni di maiale. Il cedro “consumato al naturale” durante il periodo natalizio. Il peperoncino calabrese presentato come “capsicum frutescens”. Nemmeno una citazione per il morsello di Catanzaro, la sardella di Crucoli e la liquirizia di Calabria unanimemente riconosciuta come la migliore del mondo.
Il volume “Calabria e Basilicata” della “Enciclopedia della cucina regionale” edita da Arnoldo Mondadori, in vendita con “La Repubblica” e “Tv, sorrisi canzoni”, non rende giustizia alla gastronomia calabrese. Ancora una volta una pubblicazione fatta a tavolino da autori che evidentemente non sono mai stati in Calabria e che questa regione non la conoscono.
Un’abitudine antica che non riguarda solo la gastronomia. Una superficialità incomprensibile ai giorni nostri quando ci sono fior fiore di ricerche, pubblicazioni autorevoli, strumenti come internet e telefoni di ogni genere. Per la nduja e per il peperoncino addirittura i disciplinari di produzione. In dirittura di arrivo il marchio europeo per il “Peperoncino di Calabria IGP”. E in più un’associazione di gastronomia come l’Accademia italiana del peperoncino che da oltre quindici anni promuove la ricerca e la cultura gastronomica regionale.
Le critiche cominciano dalla scelta editoriale di dedicare un unico volume alla Calabria e alla Basilicata. Per chiedersi se si tratta della solita disattenzione per le “cose del Sud Italia” o di un’imperdonabile ignoranza dell’immenso patrimonio gastronomico di due regioni che hanno tradizioni millenarie.
Il peperoncino è simbolo di identità culturale di tutta la Calabria, riferimento obbligato per tutta la gastronomia della regione. E le specialità col peperoncino si identificano con la Calabria. La nduja, la sardella di Crucoli, la rosamarina e il morsello di Catanzaro sono autentici “gioielli gastronomici”, si fanno solo in Calabria e non hanno uguali in nessun altro paese del mondo. Sono il simbolo di una cucina povera di ingredienti ma ricca di creatività e fantasia. Con la presenza importante del peperoncino che non è relegato al ruolo di generico insaporitore ma è insostituibile protagonista. Perché senza il peperoncino non è possibile preparare la nduja, la sardella di Crucoli, la rosamarina e il morsello di Catanzaro.
Che cosa c’è di tutto questo nel volume della Mondadori? Il peperoncino calabrese che è notoriamente un “capsicum annuum”, con tanto di disciplinare in via di approvazione, è diventato un “capsicum frutescens”, un genere non coltivato in Italia, poco diffuso in Europa, presente soprattutto in Messico e in Brasile con le famose varietà Tabasco e Malagueta.
Del morsello di Catanzaro e della sardella di Crucoli non c’è niente tranne un accenno al morsello nell’introduzione di Enzo Vizzari al capitolo “Cucina d’autore” dedicata alla Locanda di Alia di Castrovillari (l’unica cosa godibile del volume-nota di lp)
C’è ma è generica e imprecisa, la ricetta della “rosamarina o neonata”. Dice che “i pesci appena pescati vengono lavati con acqua dolce, quindi salati e conditi con polvere di peperoncino dolce o piccante”. Ma la ricetta tradizionale vuole un peperoncino a scaglie e non in polvere con finocchietto selvatico “a semi o a cimette”.
La nduja viene giustamente presentata come la “quintessenza della tipicità calabrese”. Con una ricetta fatta di “parti grasse e magre, fegato e polmoni macinati e conditi con sale, semi di finocchio, pepe nero e soprattutto una dose abbondante di peperoncino in polvere”.
La presenza del fegato, dei polmoni, dei semi di finocchio e soprattutto del pepe nero suona come un’autentica bestemmia. Gli ingredienti per fare la nduja sono esclusivamente le parti grasse del maiale, il lardello, la pancetta, il guanciale, qualche rifilatura di parti magre, il sale e polvere di peperoncino piccante in dosi massicce. Duecento, duecentocinquanta grammi ogni chilo di carne. Fondamentale è l’affumicatura che deve essere fatta con legna di quercia o di olivo.
Quando si parla del cedro, a parte le imprecisioni sulla coltivazione, si aggiunge che “a Diamante si consuma anche al naturale durante il periodo natalizio”. E questo non è vero perché il cedro non si mangia mai “al naturale”. Né a Diamante né altrove. Già Teofrasto l’aveva definito “il pomo che non si mangia” e le sue utilizzazioni gastronomiche con liquori e canditi sono piuttosto recenti.
Ma a parte i molti errori e le molte imprecisioni la cosa più grave di questa “Enciclopedia” sono forse le omissioni. Niente sulla liquirizia. Nessun riferimento a formaggi tipici come il “butirro” della Sila e del Pollino, degli “Animaletti di provola” di Marcellinara, della “Giuncata” di Morano Calabro e della Sila o del “Ricottone salato” di Verbicaro. Nessuna traccia dei torroncini di Bagnara, dei “palloni di fichi”, dei “Panicilli di uva passa” che piacevano a Gabriele D’Annunzio. Una sola ricetta col baccalà in una regione che il baccalà l’adora. Tre sole ricette di melanzane, senza la tradizionale “parmigiana”. Nemmeno la pasta e fagioli che i calabresi d’inverno mangiano ogni giorno. Discutibili anche gli abbinamenti dei vini che non sempre predilogono scelte regionali.
Posso prevedere fin d’ora le giustificazioni e le proteste dei colleghi che hanno curato la redazione dei testi. Ma cosa avrebbero detto loro se avessi curato io il volume sulla Lombardia, scrivendo che il panettone si fa senza il burro? O magari i tortelli con la farina di mais?
*Pubblicato domenica 21 dicembre su Il Quotidiano di Calabria diretto da Matteo Cosenza
In genere non ci piace bacchettare nessuno e non lo abbiamo mai fatto in cinque anni anche se le occasioni non mancherebbero certo ogni giorno, soprattutto sul web dove le idiozie volano in libertà, a cominciare dall’uso della lingua. Abbiamo sempre preferito guardare le cose in positivo e cercare, nel nostro piccolo, di costruire sui contenuti, lo studio, l’approfondimento. Scriviamo il nostro sito non leggendo gli altri ma seguendo le suggestioni dei viaggi, delle degustazioni e degli avvenimenti. Stavolta pubblichiamo questo articolo dell’amico Enzo Monaco su gentile concessione di Matteo Cosenza perché ci ha impressionato l’enorme mole di errori rilevati, la superficialità con cui si guarda al Sud e alle sue tradizioni. Ma soprattutto ci spiace che l’editore è la Mondandori, la più importante casa editrice del nostro paese. Una cura così raffazzonata di un prodotto allegato al quotidiano più importante d’Italia indica il generale decadimento a cui la visione ottusa degli editori sta spingendo i prodotti editoriali, ormai in mano ai ragionieri. Con la scusa di risparmiare, si procede spesso a “copia e incolla” immettendo sul mercato prodotti trash e non si capisce perché mai la gente dovebbre acquistare libri dequalificati e privi del gusto della ricerca e della indispensabile precisione della notizia. Pubblicare libri gastronomici così zeppi di imprecisioni significa insultare il lettore e disprezzare culture gastronomiche millenarie, evidentemente considerate non degne di almeno una verifica rapida in rete (l.p.)
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