Guida Michelin: l’ispettore e i sogni al tramonto

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

L’uomo stava seduto all’ombra di un ciliegio, sul capo un cappello bianco a larghe tese, ai suoi piedi un grande cane nero.

“E’ così ormai da un paio d’anni, alla fine stento io stessa a capirlo, e lui sembra voler conversare solo con Grenache, il nostro cane. Quando è morta mia madre ha provato a prendere in mano l’azienda, ma non ne era capace. Lui questo l’aveva sempre saputo, ma voleva conquistare la fiducia di suo padre, il vero grande artefice delle alterne fortune del Domaine Picasso. In effetti mio nonno Nicolas era una forza della natura, molto rispettato da queste parti. Gli devo tutto, l’ho amato come nessuno. E’ morto a più di novant’ anni, appunto due stagioni fa, portando via a mio padre ogni residua speranza.”

La tenuta occupava una grande ansa del Rodano sulla strada che da Roquemaure porta verso Orange. Seguivo Geneviève passeggiando sui prati a bordo di una piscina, tra susini, peschi e ciliegi: mi parlava della sua famiglia, mi raccontava la sua storia, indicava con una sorta di malcelato orgoglio i segni che le diverse esondazioni del fiume avevano lasciato negli anni sui muri delle case, sugli edifici disseminati lungo i frutteti. Ero disposto ad ascoltare qualunque cosa tanto ero inebriato dall’odore fresco dell’acido malico, un profumo che mi è familiare, che mi fa stare bene. Respiravo a pieni polmoni di fronte a una distesa a perdita d’occhio di meli di ogni varietà, respiravo aria di casa, ma più colorata e luminosa.

“ Mio padre non sopporta Jean Luc, ma se l’è trovato in casa: era un collaboratore di mia madre e conosceva i meccanismi. Senza capire un accidente di vino. E’ un venditore e gli va dato atto che ha assolto bene al suo compito consentendo al Domaine di continuare ad esistere, a dare lavoro, a fare utili. Senza passione, però. La frutta, il vino, l’olio che facciamo nel Luberon, per lui sono solo numeri. Non fa differenze tra una granny e una golden, i cultivar di olive sono arabo, sono nomi vuoti i vitigni dei vigneti a ovest di Chateuneuf du Pape, ho paura a sospettare che quelle cisterne che ogni tanto in primavera arrivano di notte non contengano acqua per pulire i macchinari. Basta vendere, e vendendo è diventato molto forte. E arrogante: l’ho sentito più volte alzare la voce con mio padre. Ha messo il piede tra la porta e lo stipite, e aspetta. Aspetta che mio padre si lasci definitivamente andare e che io lo sposi, superando il ribrezzo verso la sua melliflua insistenza, anch’io numero tra i numeri. Aspetta di mettere le mani su Les Hirondelles, il domaine sull’altopiano de La Crau, oltre il paese: un vigneto pregiato che lui sicuramente distruggerebbe con iniezioni di merlot e rese altissime. Ma quel terreno è mio, solo mio, era il rifugio mio e del nonno, e lui lo ha lasciato a me”.

D’improvviso la ragazza scoppia a ridere ripensando alla faccia di Jean Luc Pulin quando io gli ho detto di essere un poliziotto. L’ha raccontato anche a suo padre, che ha stretto un pugno, in un spasimo di vita, persino Grenache ha abbaiato divertito. Tanto più che da allora il tipo era diventato alquanto nervoso, meno sicuro, in continuo e ansioso viaggiare tra Orange e Avignone. “Geneviève, io sono davvero un ispettore di polizia” e lei porta la mano a coprire la bocca spalancata dallo stupore, gli occhi luminosi e le guance arrossite come nemmeno la più bella delle mele del suo immenso frutteto. “Allora deve venire con me a Les Hirondelles, per riuscire a capire. Guardi, anche papà è d’accordo”. Marcel Picasso si volta appena verso di noi e con la mano tocca impercettibilmente la tesa del cappello, all’altezza della fronte. Anche Grenache si volta e resta lì con la lingua penzoloni e il respiro affannato, quasi a farsi carico della preoccupazione e dell’ansia che il suo padrone non sapeva più esprimere.

Sono arrivato in cima alla collina con fatica, ma ne valeva la pena. Ci sono posti che ti costringono ad alzare la testa, ti obbligano a pensare a un oltre, a un altrove rispetto al tuo piccolo mondo, alla tua mattonella di sopravvivenza. Mi siedo all’ombra dell’unico albero, su una panca di pietra, bianca come l’infinità di ciottoli che circondano me e le verdissime vigne ad alberello, basse e attorcigliate, vecchie e rugose, delle rughe sapienti dei vecchi, quelle bruciate dal sole, siano di contadini o marinai, in ogni caso gente che sa guardare lontano.

“Bello, vero? Anche mio nonno veniva a sedersi qui: restava in silenzio a osservare il Ventoux all’orizzonte. Diceva che il Monte gli parlava, indicandogli la strada. Nicolas sapeva pensare al futuro, senza mai dimenticarsi del passato”. Geneviève mi aveva raggiunto con una bottiglia e due bicchieri: “Credo che possa farle piacere un goccio di sidro, anzi le sarei grata se volesse darmi un parere spassionato. Lo faccio io, lo facevamo col nonno, qui è una rarità”. L’avrei abbracciata. “Il vino no, ancora non ne sono contenta. Il nonno prima vendeva le uve de Les Hirondelles, poi cominciò a fare vino, prima sfuso, poi in bottiglia. Per sé, per gli amici, per chi glielo comprava. Era buono e bottiglie non ne restavano. Lo stesso fece con l’olio che teneva nelle vasche di marmo coperte da doghe di legno: solo più recentemente s’era convinto a imbottigliarlo.Un giorno gli chiesi se non fosse il caso di dare un nome al nostro vino, di vestirlo con un’etichetta, insomma metterci la faccia. Lui era già debole e vecchio, ma si fece accompagnare sin qua, ad accarezzare le vigne, a toccare i galets, a guardare il Ventoux: non disse niente, ma qualche tempo dopo mi regalò una scatola di pastelli: “disegnala tu”, disse. Lo feci davvero, ma lui non ha fatto in tempo a vedere il suo vino con la nostra etichetta. Ora tocca a me, sono un enologo, ma devo migliorare e trovare la mia strada. Certo queste uve Jean Luc se le sogna, ma non ho ancora quello che voglio: spero nella prossima vendemmia, e se tutto va bene nascerà lo Chateauneuf du Pape “Le Pic”, Domaine des Hirondelles. Tutti qui chiamavano mio nonno Le Pic. Glielo devo.”

Rimasi a guardare l’orizzonte attraverso l’aria sospesa della sera, gli occhi semichiusi, il senso di afasica impotenza proprio di un animo ormai definitivamente prosciugato. Eppure quello sguardo attonito nascondeva un’intima e sorprendente serenità: una fuggevole scintilla, il soffio dimenticato del gusto di vivere, un tempo morto intriso di vita, un attimo che avrei voluto non finisse mai. D’improvviso mi scuoto e guardo la ragazza: “Il sidro è magnifico, davvero” e ancora una volta s’infiammò di rosso, i capelli biondi scompigliati dal vento. “Geneviève, perché proprio io? Perché quel giorno con lo sguardo hai cercato proprio me?” “Perché lei aveva i capelli raccolti in un bislacco codino, come mio nonno, ma soprattutto perché era l’unico senza bicchiere a tracolla”.

L’hammond segna l’attacco di Streets of Philadelphia, una ballata che sa di destino. Lungo la strada che mi riportava verso Gordes cercavo disperatamente uno straccio di sogno che avesse mai segnato la mia vita. Non sono riuscito a trovarne nemmeno uno.

 


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