di Giancarlo Maffi
Certo, non che i nomi nascono a caso. La scelta è difficile e richiede attenzione. Autorevolezza e disincanto. Gioco, evidentemente, ma anche un palato meno d’amianto possibile.
Poi ci sono dei paletti, almeno credo. Niente giornalisti professionisti, anche se nell’edizione 2010 l’unico fu Bonilli, non proprio un dilettante. Ma quella era un’altra storia. L’anno successivo furono Cauzzi, il khomeinista di Passione Gourmet (autocitazione non esplicitata ma chiara <mai un altro critico al di fuori di me>) , in nome e per conto dei suoi fedeli; il sottoscritto, immeritatamente, se non fosse per quell’aria molto maffiana nel dire che il re è nudo anche quando gli altri, tutti gli altri, si genuflettono; il sempre giovane e bravissimo Marco Bolasco, anche lui però fior di professionista, ma quella è un’altra storia particolare e io non ve la racconto. Quindi, tolti appunto i professionisti, restano, è ovvio, i dilettanti. E quindi qui sta il busillis. Il mondo web ne sforna decine a settimana ormai. Se pensate che uno dei blog più seguiti ha a capo un tizio che scrive dando del tu a grandissimi chefs (e molto spesso del pirla a critici con pedigree impeccabili) senza mettere praticamente mai piede in un ristorante di livello vi potete immaginare… E quindi immaginatevi pure le comunque lievi ambasce nelle quali si è trovato a novembre dell’anno scorso il Grande Capo Pres. Lup. Mann. Dott. Cav. e chi più ne ha più ne metta, Enzo Vizzari, detto Enzò accentato dai trecentoventidue chef francesi e duecentosettanta produttori di Borgogna che, lui sì perdio, conosce nell’intimo.
Ha probabilmente chiesto qualche consiglio in giro, uno anche al vostro sottopirla qui scrittore, e sono sorti tre bei nomi, alla fin fine quasi obbligati: in rigoroso ordine alfabetico Caffarri, Ciomei, Scarpato. Rigoroso ordine alfabetico perché i tre, ognuno a modo suo ci mancherebbe altro, soffre di sindrome da accerchiamento parosso-permalosistica.
Ciomei Leonardo da Montecatini Terme, detto Leo o Crapapelata dai lontani trascorsi del forum del Gambero Rosso dove si sono formati fior di gourmet, è un toscanaccio d’autore. Del resto uno nato vicino a Collodi ha un destino segnato. Se gli osservi il lato b e non sei particolarmente attento puoi scambiarlo per Roberto Benigni, anche nell’abbigliamento, a volte una taglia superiore al necessario. Ironico, salace oltre misura, è capace di una battuta feroce anche al cospetto di un dramma. Però non sembra, con la sua mitezza compiuta. Si dice progressista ma i comportamenti sono curiali. Un Letta in pratica, più simile al nipote che allo zio. Però gentile, corretto, bella persona. Dopo averci messo un secolo prima di mollare un blog enogastronomico da sciampiste, scrive qui articoli gustosissimi, che solo lui sa trattare con, appunto, la sagacia e talvolta la perfidia che è la cifra toscana del suo incedere, anche fisico.
Il Caffarri invece bisogna maneggiarlo con molta cura. Dovete sapere che noi colloquiamo moltissimo fra le sette e le sette e trenta di molte mattine, mentre lui raggiunge l’ufficio milanese dalla sua magione reggiana, in quel di Borzano. E’ un manager di un’azienda tremendamente importante in un certo mondo ed ha anche a che fare con la nostra passione. E forse ce ne farà vedere delle belle. Sono sedute psichiatriche, le nostre del mattino, in cui a turno ci si distende sul lettino, lui dal sedile dell’auto e io dal divano, già fresco da un triplo caffè. Stefano ha una scrittura di alto livello ma si cruccia un po’ che pochi lo capiscano e lo seguano, dall’alto del suo blog Appunti di Gola. Degne di nota, lui dice le migliori del mondo, alcune sue recensioni di vini e ristoranti ma per me resta piacevolissimo soprattutto il settimanale “ il sabato del villaggio” dove al meglio possiamo ritrovare passaggi interessanti della settimana enogastronomica, pensieriparole e varia umanità.
Fabrizio Scarpato, della Spezia, è forse l’uomo più interessante del trio, per me, lato psichiatria. Da maneggiare con attenzione anche superiore a quella utile per lo scrittore reggiano. Scrive benissimo, con citazioni forbite e talvolta surreali. Appassionato di molto, si diletta con l’AIS spezzina. Le strette conoscenze riguardo alle frequentazioni dei ristoranti sono certamente meno di quelle di Ciomei e Caffarri, ma sopperisce alla quantità con una qualità delle osservazioni direi maniacale. Credo abbia dormito pochissimo, saputo della sua elezione a cameista, per almeno due tre settimane. Non ho mai capito se ci è o ci fa: sembra quasi chiedere scusa di esistere, poi spara pezzi bellissimi, degni di un premio letterario. Anche lui viene dal solito blog stile Novella 3000, dove naturalmente non poteva fare ascolti. E’ approdato da noi per una forsennata campagna acquisti, solo morale sia chiaro, attuata dal sottoscritto qualche tempo fa e tendente soprattutto a far comprendere a certe persone che laggiù le loro intelligenze, passioni e follie stavano proprio sprecate. Titilla il suo ego, insomma, ma dice che lui non ha ego. Boh. E’ ligure, lato levante, e ciò potrebbe dire molto.
I tre si mettono felicemente all’opera (oddio Scarpato ci mette un po’ a liberarsi dagli incubi notturni). I paletti sono pochi ma significativi. Non si possono ripetere i camei dell’anno precedente, ma Caffarri ottiene un via libera particolare per Massimo Bottura, fatto da me la scorsa edizione e viatico straordinario per il mitico 19,75/20 dato per la prima volta dalla Guida dell’Espresso. Qualche incrocio, cavolo a tutti piacciono gli stessi ristoranti talvolta, risolto con signorili atteggiamenti dai tre, che scalpitano ai blocchi di partenza.
Caffarri ha dalla sua una professione che gli permette di girare molto. Potrebbe farne trenta tutti lui, non lo confessa ma gli piacerebbe moltissimo, e chiude largamente primo. Il Ciomei, pigro di natura, rischia di andare addirittura fuori tempo massimo. S’incarta su un ristorante toscano che ancora non ha riaperto e rischia la squalifica. Scarpato è il piu’ preciso e chiude i camei nei tempi giusti, anche se sussurri mi dicono che ne abbia dovuti rifare un paio, per eccesso di temi surreali all’interno di quelle che dovrebbero essere note di colore intorno al cibo.
Qui vi cito le tre migliori a testa, per me.
Naturalmente niente a che vedere con la perfezione delle mie dell’anno precedente, naturalmente. ma NON SI PUO’ AVERE TUTTO: E’ UN NATALE DI AUSTERITA’
Ecco le tre di Caffarri:
Osteria Francescana – Modena – chef Massimo Bottura
Assai arduo il compito di parlare del cuoco più “parlato” del momento. Di certo la capacità comunicativa di Massimo Bottura è un ingrediente non secondario dell’alchimia che l’ha portato sulle vette del mondo. Ma per capirne l’essenza, basta ascoltarlo mentre racconta uno dei suoi piatti. Bottura è un inarrivabile interprete della Cucina Teatrale, intesa come il momento della rappresentazione del vero attraverso la finzione. Come in Teatro, il cuoco modenese sceglie un linguaggio e ne studia ogni aspetto, sfumatura, accento: poi scrive la partitura e la manda in scena. Curando ogni dettaglio, ma affidandosi anche all’unicità del momento, racconta una storia, quella che lo spettatore gode abbandonandosi ai suoi piatti. Ma in nessun altro mondo s’è visto una tale veemenza, un tale trasporto nel realizzare un progetto, manipolando e reinventando la realtà, piegandola alle proprie intuizioni. Perché la Francescana è il luogo dell’invenzione, assai più preziosa della scoperta. L’invenzione cercata con caparbietà: giorno dopo giorno, superando inerzie e rimestando culture, sapienze, competenze. Un Teatro – una cucina – fatti di contaminazioni, di saccheggio continuo delle verità incontrate sul pianeta Terra. Eppure tutto resta illuminato da un nitore abbagliante, dall’esattezza tagliente delle sensazioni, dalla concentrazione e dall’intensità dei singoli componenti. Per l’armonia, aprire il sipario.
Le Colline Ciociare – Acuto (FR) – chef Salvatore Tassa
Sono passati più di vent’anni da quando sono entrato la prima volta a casa di Salvatore Tassa, una sera di gennaio. Era il giorno uno, che allora mi pregiavo di ignorare il veglionissimo e regalarmi un sogno la sera dopo. Il cuciniere, devastato di fatica, si sedette al tavolo fino a tardi, a raccontarsi. Oggi l’album dei ricordi va aggiornato: ai bordi della Prenestina trovi una sala arredata per sottrazione. Tre sassi sulla tovaglia, nudi. Veri. Un’antifona della cucina del Druido di Ciociaria, che probabilmente oggi è la miglior interpretazione dell’Artisan Culinaire che si possa trovare in Italia. Una specie di folletto benigno, brusco e schietto ma dotato di una sensibilità raffinata che solo i superficiali non vedono. Un folletto che porta in tavola sapienza e coscienza, distillandone l’essenza. La cucina delle Colline Ciociare oggi è lontana dalle scorciatoie tecnologiche: l’unico sottovuoto che trovi è fatto con ghiaccio e vapore, l’unico termomix che vedi è frusta braccia e colino. Lo ascolti, Salvatore, mentre ti dice “il coltello, devi sentire che rumore fa quando taglia la carne” e poi fa il gesto e il rumore, zac, zac, tra le labbra. Ti racconta dei profumi dei boschi, catturati nelle infusioni di legno e muschio; della selvaggina, da cui preleva delicatezze inattese; delle erbe, che conosce per nome una ad una: proprietà, sapore, aroma. Oggi la sua voce è diversa da qualsiasi altra: ascoltarla significa farsi condurre altrove, in un luogo dove la natura e l’uomo solo una cosa sola.
Sud – Quarto (NA) – chef Marianna Vitale
Linguini, disperato, siede sull’argine della Senna. Parla con il topolino nel vaso di vetro e gli chiede “Matù, matù… tu capisci quello che dico!”. Ecco, l’espressione di Remy racchiude tutte le somiglianze di Marianna Vitale con il protagonista del film “Ratatuille”: due occhi grandi e crepuscolari, mai fermi. Certo, quella toque immacolata e turrita fa la sua parte, ma potrebbe trarre in inganno. Marianna è potente, a volte prepotente, e prende per il capelli i sapori della Campania contemporanea come Remy strattonava quelli di Linguini da sotto una toque proprio come la sua. E se il miracolo del film era il genio culinario del topolino, qui ce n’è almeno un altro: scommettere, e ritirare la posta vincente, sul numero di Quarto, dalle parti del lago Averno. Perché oggi Sud è una realtà viva e fumigante di idee e di gente almeno quanto i vicini Campi Flegrei, anche grazie a scelte sagge e prudenti, in netto contrasto con l’idea sconsiderata di aprire un ristorante gurmè da queste parti: prezzi educatissimi, proposte affidabili e con piccoli, misurati inserti di novità. Ma anche l’idea di trattare le cose quotidiane, in qualche modo rassicuranti, abbandonando gli ingredienti più aristocratici. Niente caviale e fuagrà, ma il pesce “povero” e le verdure ribollenti di sapore delle piane vulcaniche: un’indicazione chiara per tutti ed ognuno. Ma se una volta conquistato il tavolo bianco della bianca sala di Sud ti verrà voglia di gridare – con Anton Egò – “Stupiscimi!” qualcosa accadrà di certo.
Quelle di Ciomei:
MARCONI – Sasso Marconi (BO) – chef Aurora Mazzucchelli
“Non ci sono donne in cucina perchè non ce la fanno, è un mestiere troppo duro per loro”. Quando lessi questa frase, pare enunciata da un nostro famoso chef e riportata dai blog gastronomici, mi vennero in mente le ostesse emiliane che lavoravano dall’alba a sera impastando, cucinando e spesso servendo i piatti in trattoria, donnine che alzavano pignatte da trenta kg. con ostentata indifferenza. Ma, tralasciando l’aspetto sociologico, qualche verità in quelle parole ci deve pur essere se le chef donne sono così poco numerose nelle cucine dei grandi ristoranti (si parla di cheffes che veramente “cucinano”): una di queste è sicuramente Aurora Mazzucchelli, eclettica cuoca che non ti fa rimpiangere i continui rallentamenti dovuti ai lavori (e ai mille autovelox) della vicina autostrada del Sole, titolare a Sasso Marconi insieme al fratello Massimo del ristorante di famiglia. E visto che a Bologna le vecchie osterie cantate da Guccini non esistono quasi più il consiglio che dispenso agli amici di passaggio è di lasciarsi alle spalle la “vecchia signora dai fianchi un po’ molli”, salire qui al Marconi e mettere alla prova le papille gustative con i piatti creativo/emiliani di Aurora. Da semplice frequentatore di musei ho visto un’opera d’arte ne “i colori delle rane: verde, rosso, arancione,giallo, nero, bianco”, un piatto tanto bello che dispiace (quasi) mangiarlo. Oppure i maccheroni al torchio ripieni di anguilla affumicata con ostriche crude e salsa di spinaci, a vederli quasi delle piccole banane che invece sprigionano sapori forti e generosi. W le donne chef !
CASA VISSANI – Baschi (TR) – chef Gianfranco Vissani
Ma Lui c ‘era ? questa sembra essere diventata la frase che ricorre abitualmente quando si parla di un pranzo/cena da Vissani. Come se la presenza dell’ormai collaudato one-man televisivo alzasse la qualità già elevata dei suoi piatti o rendesse ancora più confortevole gli ambienti. In cucina e in sala tutto procede benissimo anche senza l’autorevole mole del Gianfranco nazionale ma in effetti è spesso lui ad accogliervi sulla porta. Avvicinarsi al ristorante e alla cucina di Vissani non è stato però semplice: per lungo tempo c’è stato un timore reverenziale fra gli avventori dovuto alla fama da orco che si era fatta fra gli appassionati gastronomi, simile a quella dello chef di San Vincenzo e invece… accoglienza cordiale e non ingessata, piatti perfetti nella loro complessità, servizio da grande ristorante d’oltralpe e possibilità, inedita a questi livelli, di pranzare, con il menù 1′ Ora, ad un prezzo di poco superiore a quello di una qualsiasi trattoria di paese. Ricordare qualche piatto serve a poco in un menù che cambia in continuazione ma almeno un accenno è di dovere alla portentosa Poularde de Bresse, sporzionata al vostro tavolo da Luca Vissani e proposta in dosi generose. Vi accorgerete poi che il tempo passerà veloce nel salotto davanti al caminetto per il dessert, in compagnia di un sigaro o di un distillato e, se possibile, allungate ancora di più la visita chez Vissani con un giro nelle immacolate grandi cucine, vera goduria e sana invidia per l’appassionato gastronomo !
MOSAICO – Ischia (NA) – chef Nino Di Costanzo
Ischia-Capri 1-0. Riassumerei così il derby gastronomico fra le due splendide isole campane. E il risultato, come dicono spesso i giornalisti sportivi, dovrebbe essere più tondo. Merito soprattutto di questo ristorante e del suo chef Nino Di Costanzo che con la sua innata classe e il supporto del chirurgico personale di cucina riesce a rendere indimenticabili i piatti serviti. Il posizionamento delle verdure e delle salse ma pure la maniacalità nella scelta delle stoviglie ricorda Martin Berasategui, l’osannato(a ragione, perbacco) chef basco. Qui, visto l’esiguo numero di coperti, sembrerà che ogni piatto sia creato e assemblato appositamente per voi, come un vestito di alta sartoria. A molti l’esasperata ricercatezza che Nino mette nelle sue creazioni potrebbe distrarre l’attenzione dal cibo. No, quando siamo davanti ad un piatto come il coniglio, coscia e lombo associati a pistacchi, patate al provolone e arancino di riso si dimenticano i cromatismi, il modernismo e gli orpelli e ci tuffiamo sulle carni del grande classico ischitano rivisitato. Oppure la miròeggiante pasta mista con patate gialle, rosse e viola, mazzancolle e seppie alla brace: un quadro. La passione dello chef per l’architettura e le barocche presentazioni infatti non pregiudicano certo il risultato finale. Sono d’accordo che i quattro tavoli quattro più uno in cucina del Mosaico non siano l’ideale per uno stuolo di gastronomi all’attacco: alla mensa di Nino Di Costanzo si devono attivare i cinque sensi (e anche di più), mettere in moto il cervello e divertirsi divertirsi divertirsi.
E quelle di Scarpato:
Jasmin – Klausen-Chiusa (BZ) – chef Martin Obermarzoner
E’ Natale a Klausen: musiche e voci sotto gli erker decorati nei toni pastello, lane cotte e dolci speziati tra fuochi e fiati condensati dal gelo. Ténere lanterne di carta disegnano poetici percorsi, caccia a un tesoro forse nascosto tra gli eleganti tavoli del Jasmin, tra candele di cristallo e caldi pannelli di legno incorniciati da luci soffuse. Quasi una sala da musica. Giovani donne si muovono silenziose, carezzevole l’inflessione della loro parlata: ti aspetti che d’improvviso una di loro possa accomodarsi lì accanto e, con austera eleganza, imbracciare un violoncello. Note calde e profonde, a tratti ardue, d’improvviso dolcissime. La musica irrompe languida: semi di sambuco ed essenza di pomodoro, esotismo e nostalgia, caccia e oceano. Scarti dell’archetto suggeriscono suoni del mondo, traiettorie di sapori tra nord e sud; il crine poi si sfrangia su impervi aromi coloniali dispersi tra oriente e occidente. Aeree vibrazioni, straniamenti sensoriali: Martin Obermarzoner come Tan Dun. Poi realizzi che non basta un frutto della passione per dimenticare il freddo delle valli e il calore di una stube, per disperdere il sapore del latte e il profumo delle spezie, per allontanarsi da se stessi. Il crescendo di dolcezza trova equilibrio nella seducente trasfigurazione di una pera, un frutto che è ritorno a casa, se mai ce ne fossimo allontanati. Basta allora fermarsi vicino a un fuoco a bere qualcosa, per afferrare quella cascata di note: tra le mani un succo di mele, caldo.
Arco Antico – Savona – chef Flavio Costa
Giallo. Dopo l’ennesima galleria, il sole sbuca tra le nuvole, annunciando l’ingresso nella Riviera di Ponente. Il mare vira al blu. Una cappella medievale, un ponte in pietra: sulla piazzetta oblunga, l’Arco Antico, subito dopo, la campagna. Propaggini savonesi, un piccolo locale in una palazzata terratetto, una diffusa aria ferrigna, mitigata all’interno da bicchieri multicolori e pareti di un confortevole giallo pastello. Tutti i colori del giallo: pennellate di energia nel tuorlo che affiora lento su una spuma d’avorio tra luci di gemme aranciate; segni di personalità nella crema di zucchette trombette, attraversata dalla citrina vitalità di esili scorze di limone candite; tratti di estroversione nello zafferano che avvolge, caldo, ocra ravioli all’uovo; cenni di mascolina irruenza nella salsa di vaniglia affumigata al tabacco. Caldi cromatismi, striati con la sapidità e la dolcezza del mare, di pesce e crostacei, fino a trovar sicuro appoggio in croccanti asparagi di Albenga. Gialli e blu, a miscelare un verde tutto ligure. La terra, approdo all’andar per mare, sicuro rifugio di ritorno dall’esplorazione. Ricerca di equilibrio: destino dei liguri. Flavio Costa sa camminare sul filo, incanta e segna col giallo la tela della sua creatività: rasserenando. Il sole scalda questa parte dell’arco ligure, mi immergo nel verde increspato della Riviera dei Fiori: la radio canta i migliori anni della nostra vita, dai muri esondano bellissimi alberi di mimosa già in fiore. Gialla.
La Pineta – Marina di Bibbona (LI) – chef Luciano Zazzeri
Un capanno caldo di legno, una tavola dai colori naturali, una candela che moccola su un candelabro d’argento nella notte. Il vento e le onde del mare ti sfiorano, colonna sonora suadente e salmastra. Le tende di lino si gonfiano silenziose, lo scricchiolìo delle doghe del pavimento anima un’aria antica e selvatica, elegante e protettiva. Sensazioni a pelle, piedi nudi e maglione slabbrato, forse tra legni e sabbie di Martha’s Vineyard, tra nasse e aragoste, sul finisterre della Pointe du Raz o su spiagge dell’aspra Cornovaglia, teatro degli amori di Ross e Demelza Poldark. Alta Maremma, invece, costa etrusca, battuta dal vento e bruciata dal tramonto: il mondo esterno racchiuso in inerti palle di vetro. Calore, contrasti vivi, nero e rosso di seppie e triglie, colori densi, materici, l’intensità del cibo, la densità fiamminga della luce di una candela nel buio salato. Ritrovare nei piatti la mineralità e la sfrontatezza del mare: cucina di mare, un mare visto da riva, pesca che respira con la terra, senso primitivo di cattura, di caccia, nei boschi e nella macchia là, dietro il tombolo; cucina della manualità, del pescato, l’amo nella bocca del pesce. Preda, cacciatore, il cibo, le mani. Maremmitudine. Staresti lì a contar stelle cadenti, dividendo quel maglione con lei, mordendo un panino con trippe di mare e una frittura fragrante. Poi chissà. Cucina forte e gentile, carnale e possente, sensuale e ancestrale. Può capitare di sentirsi vivi con la cucina di Luciano Zazzeri.
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