Può un Greco di Tufo resistere per 28 anni? Può regalare ancora sensazioni positive? Conoscendo la mia passione per i bianchi invecchiati Paolo e Laila Gramaglia hanno voluto offrire una vecchia bottiglia acquistata dal padre Salvatore, fondatore del ristorante President a Pompei e grande collezionista di vino, tra i primi ad inserire i campani.
Nel 1992 Greco di Tufo e Fiano di Avellino uscivano poco dopo lo svinamento per essere immessi sul mercato delle feste natalizie che in Campania vuol dire cucina di pesce. Non erano dunque pensati per durare a lungo e soprattutto all’epoca in Italia, tranne che per i vini dolci siciliani, non esisteva proprio la cultura della conservazione dei bianchi. Ma, diciamolo, anche dei rossi.
Già però lo stappo è incoraggiante: il sughero, lungo sei centrimetri, è quasi completamente bagnato all’esterno ma integro. Quando lo versiamo ci viene in mente la frase secondo la quale da vecchi si ritorna bambini.
Perchè? Mi spiego: in questa foto vedete la chiara differenza tra i mosti del Greco di Tufo (a destra) e Fiano di Avellino. Il Greco sembra una aranciata.
Bene, era proprio questo, sia pur più limpido, il colore del Greco di Tufo 1992 di cui stiamo parlando.
A questo punto tutto è ancora possibile, come ben sanno gli appassionati. Mettiamo il naso nel bicchiere presagendo la sensazione di maderizzato e invece, dopo qualche secondo di riduzione emergono il sentore di frutta sotto spirito, nota di idrocarburo e di pasticceria.
Diciamoci la verità, non è un naso esaltante ma sicuramente molto interessante e complesso oltre che intenso. Andiamo avanti con il sorso che è poi il momento verità: troveremo o no l’acidità necessaria per dire che siamo in presenza di un vino ancora vivo? La risposta, stupefacente, è si.
Non è l’acidità dei primi anni del Greco di Tufo, ossia proprompente, esagerata, scissa. Odiata e deprecata dai morbidisti anni ’90. Ma c’è, è nella trama del sorso ancora vivace, tanto da lasciar presagire ancora un percorso da fare.
Naturalmente questi sono esperimenti estremi, sappiamo che gran parte dei vini bianchi italiani, se ben conservati, resistono al tempo anche se sono lavorati solo in acciaio. Solo alcuni, come Fiano, Verdicchio, Vermentino e poi gli internazionali Gewurtraminer, Sauvignon e Chardonnay, hanno anche una evoluzione olfattiva interessante.
Però sono esperimenti utili a portare avanti il discorso che abbiamo iniziato da tempo: la necessità di lavorare sul tempo anche sui bianchi come si è fatto per i rossi per poter dare valore alle bottiglie e dunque alla viticoltura. Le emozioni che regalano i bianchi invecchiati sono pari, se non superiori, a quelle di molti rossi come ben sanno gli appassionati di Borgogna e di Riesling. E in Italia nulla impedisce di raggiungere gli stessi risultati.
Man mano che il tempo passava, riscaldandosi, il Greco ha accompagnato i piatti di Paolo Gramaglia svolgendo bene il suo compito di vino operaio, vino accompagnatore del cibo e regalando una maggiore complessità olfattiva e al palato decisamente appagante.
Il mitico Antonio Mastroberardino non avrebbe mai potuto immaginare un simile epilogo a questo tipo di bottiglie, ma il risultato dimostra, per l’ennesima volta, il grande potenziale di queste uve alle quali, purtroppo, gran parte dei produttori non sono adeguati sul piano della visione produttiva e commerciale nonostante siano ormai passati quasi trent’anni. E dimostra, non diamolo per scontato, che la storica azienda lavorava molto bene sia nella scelta della materia prima che dei tappi.
Ps: dobbiamo aggiungere che dopo tanto tempo ogni bottiglia ha una storia a se stante, proprio come gli uomini dopo 80 anni: c’è chi è ancora giovanile e chi non si regge in piedi.
L’importante è la conservazione secondo questi criteri: buio totale e assoluto, posizione della bottiglia orizzontale, temperatura fresca e comunque mai choc termici. Basta un anfratto protetto della casa per poter conservare a lungo queste chicche che, stappate tra appassionati, fanno la loro porca figura.
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