Il 13 febbraio fa pubblicammo questo articolo del Presidente di Slow Food Campania. Non eravamo veramente consapevoli fino in fondo degli interessi che si sono costituiti in Italia su questi temi e quanto sia forte la lobby che vuole crocifiggere tutti i contadini sulla croce del profitto senza preoccuparsi della tutela dell’ecosistema e della salute dei consumatori. Rileggerlo nel week end in cui la Campania si dedica a Sementia è molto istruttivo.
di Giuseppe Orefice*
Ci sono cose nella comunicazione che a volte mi fanno saltare dalla sedia, come ad esempio questa continua caccia alla bufala in tutto ciò che di nuovo avviene nel mondo delle produzioni e dei consumi agroalimentari.
Molti amici hanno condiviso, in assoluta buona fede, il recente articolo sui grani antichi apparso su WIRED a firma di Gianluca Dotti, fisico ed esperto di cyber bullismo (non mi fate domande, ma fatevene), che poi riprende quanto spesso ripetuto a mo’ di mantra da Dario Bressanini.
L’articolo si intitola “5 bufale pubblicitarie sui grani antichi” e già qui il buon Gianluca ci dovrebbe spiegare chi pubblicizza i grani antichi e con quali interessi, perché non mi pare cosa di poco conto.
Ma passi sul titolo, mi preme dimostrare che tale approccio è contro producente ed in molti casi addirittura rischia di creare disinformazione.
Punto 1. I grani antichi non sono affatto antichi.
Vero. Ma che cosa vuol dire? Esiste una distinzione netta tra quelli che comunemente vengono detti grani antichi e gli altri: dovremmo definire, infatti, ante-creso i primi e post-creso i secondi. Il creso è il primo grano ottenuto negli anni ‘70 per modificazione genetica indotta attraverso radiazioni gamma, niente di particolarmente grave per carità, ma comunque una distinzione forte tra un “moderno” ed un “antico”. Io stesso per svariati motivi preferisco non utilizzare la dicitura “grani antichi” preferendo definirli “grani del futuro”, ma le parole corrono a prescindere dalla loro esattezza e mi sembra difficile attualmente tornare indietro.
Punto 2. I grani antichi hanno subito modificazioni genetiche.
Anche questo è vero, come è vero che tutto ciò che mangiamo ha subito modificazioni genetiche; non mangiamo certo le stesse cose che si mangiavano 1000 anni fa, ma qui l’articolo lascia quasi intendere che si tratta di OGM, la distinzione tra “selezione genica” (anche detto miglioramento) che gli agricoltori hanno sempre fatto e “introduzione di materiale genetico” eterologo è cosa ben diversa. Per questo motivo la distinzione tra “antico” e “moderno” trova ancora un’altra valenza: organismi che seppure recenti esistono da 80-100 anni ci danno sufficiente sicurezza circa possibili ripercussioni sulla nostra salute rispetto a organismi modificati geneticamente (modificazione eterologa) negli ultimi 20 anni.
Punto 3. I grani antichi non contegno meno glutine
Incredibile è vero anche questo… ma parzialmente. Il grande merito della “moda” dei grani antichi è quello di aver fatto capire a molti consumatori che non esiste il grano e il pane, ma “i grani” ed “i pani” e che alcuni presentano maggiore quantità di glutine e tutti presentano diversa qualità del glutine. Sulla qualità del glutine si scrive e si dice poco ma ormai numerosi studi dimostrano come il glutine presente nelle vecchie varietà presenti un minor numero di epitopi tossici. Inoltre il recupero di varietà tradizionali di grano ha aperto anche all’utilizzo di altre tipologie di cereali diverse dal frumento naturalmente senza glutine, come ad esempio riso, sorgo e miglio e di non cereali come grano saraceno e quinoa.
Punto 4. I grani moderni non sono la causa di intolleranze e celiache
E’ vero che non esistono prove, ma vero anche che esiste in campo sanitario un principio di precauzione; inoltre sta diventando notevole la bibliografia scientifica che mette in relazione fenomeni di intolleranze a sostanze che si riscontrano lungo tutta la filiera produttiva dei grani moderni. Di certo e di scientifico possiamo dire invece che le aflatossine che spesso sono state ritrovate in grandi quantità nei cereali “moderni” contenuti nelle stive delle navi non sono proprio un toccasana per la nostra salute.
Punto 5. I grani antichi hanno bisogno di diserbanti e concimi
Le varietà ad alto fusto (antiche) se correttamente condotte dal punto di vista agronomico sovrastano per altezza le infestanti, riducendo notevolmente la necessità di diserbo, ma qui ad essere sbagliata è proprio la premessa fatta da Dotti infatti si dice: “se si vuole aumentare le rese” ma questa logica è propria della grande industria, i piccoli agricoltori che producono grani antichi hanno le estensioni non hanno bisogno di aumentare le rese, piuttosto di aumentare la qualità. Ci sono colline intere delle nostre aree interne che potrebbero essere coltivate con grani antichi, se solo questo desse agli agricoltori una congrua remunerazione.
E vengo al punto di questo articolo che più mi fa “incazzare”: l’autore nella parte inziale del suo articolo dice che “i falsi miti” creati intorno ai grani antichi giustificano prezzi molto più alti, lasciando intendere che a questo prezzo non corrisponda un reale valore di questi prodotti.
Mi chiedo se Gianluca Dotti sa che oggi un quintale di grano vale tra i 13 e i 18 euro a quintale, il costo in pratica di 5-8 kg di pane.
Li conosce i costi di produzione di un piccolo agricoltore? Di che stiamo parlando? Ben vengano i grani antichi, antichissimi, anche preistorici se questo vuol dire restituire un minimo di futuro a chi produce il cibo di cui ci nutriamo.
L’articolo si conclude con “Il consumatore è libero di scegliere il tipo di grano che preferisce, così come ogni agricoltore può decidere quali colture adottare.” Falso, falso e ancora falso il consumatore non è affatto libero perché chi detiene i mezzi della comunicazione spesso “utilizza” un trend come quello dei grani antichi per speculare sul lavoro di chi quel trend l’ha determinato con sudore e sacrificio, non ci vorrà molto per vedere Banderas e la sua gallina impastare farine di grani antichi.
Ma la cosa che molti non sanno è che neppure gli agricoltori sono liberi, infatti, possono autoprodursi e scambiare semi solo a determinate e stringenti condizioni: modiche quantità, reciprocità, pubblico dominio questo per non disturbare gli interessi delle lobby sementiere.
*Presidente Slow Food Campania
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