Napoli. Pizzeria A’ ddo figlio ‘e Michele. Qui Raffaele Condurro fa ancora la pizza a quasi 90 anni

Pubblicato in: Le pizzerie

Calata Capodichino 38
Tel. 081.19101830
Pizze da 3,50 a 6 euro

di Tommaso Esposito
Amanti e buongustai della tradizionale Pizza Napoletana segnatevi questo indirizzo: Napoli, Calata Capodichino 38, salendo da Piazza Ottocalli a destra sul marciapiedi.

Qui ci sta, e lavora ogni giorno dritto in piedi dietro al bancone, Raffaele Condurro.

Ha quasi novanta anni ed è il figlio vivente di Michele, quello famoso che intorno al 1906 continuò la tradizione del padre Salvatore e aprì la pizzeria che ancora esiste a ridosso del quartiere di Forcella, là dove Julia Roberts nel 2011 ha girato, gustando la Margherita, una delle scene più belle del suo film “Mangia prega e ama”.

Gli dà una mano la moglie Iola Sorega, mentre al forno l’assiste il genero Aniello.

Penultimo di tredici figli, sette maschi e sei femmine, di cui una avuta dal papà con la seconda moglie, don Raffaele ha cominciato a fare il pizzaiolo sin da bambino un po’ seguendo gli insegnamenti paterni, un po’ emulando gli altri fratelli più grandi di lui. Di gomito e di pala se l’è cavata per oltre quindici lustri e ancora tiene duro.

“Controlla che ogni cosa vada bene – dice la moglie con lo sguardo eternamente innamorato mentre ammacca sul marmo le pizze- Prima l’impasto e poi il resto.”

È la filosofia del pizzaiuolo ereditata dal secolo scorso e pure dall’altro quando, proprio nel 1800, in tutta Napoli si diffondeva e si alimentava grazie a Pietro Colicchio, il Pizzaiuolo di Palazzo Reale, il più amato da Re Ferdinando, il mito del più popolare cibo di strada, l’alterativa al Ddoje allattante o al Tre Garibbarde, cioè il piatto di maccheroni condito soltanto con cacio e pepe oppure con un mestolo di salsa di pomodoro lasciata struggere a fuoco lento nei grandi pentoloni senza grasso alcuno, soltanto con il sale.
E come si faceva l’impasto della pizza in quel tempo?

 

Con i panetti avanzati nel giorno precedente, lasciati crescere oltre misura a temperatura ambiente.
Non si trattava di un vero e proprio lievito madre, che invece come si sa si rigenera ogni notte.
Siamo in presenza della semplice pasta di riporto, una sorta di criscito che ogni volta avviava in modo diverso la lievitazione. Il bel tempo, il caldo, il freddo, l’umidità facevano il resto.
Raffaele Condurro, in piena epoca scandita dalla tecnologia applicata fin dentro la madia lavora ancora così.

Niente temperature controllate (quello che basta si fa e tutto finisce in giornata), niente milligrammi di saccaromiceti: un po’ di criscito, sciore di grano, acqua, sale, l’occhio, la mano e via.
Poi viene quello che ci deve andare sopra: il pomodoro San Marzano, l’origano, l’aglio novello quando c’è e l’olio per la semplice Marinara;

il fiordilatte di Agerola, il parmigiano e il basilico per sua Maestà la Margherita.

Il risultato è quello di una superba pizza d’antan che bisogna assaggiare necessariamente per capire quale sia stato il vero gusto dei napoletani per l’intero arco di due secoli, prima cioè che l’avvento dei blend di farine speciali insieme alle idratazioni spinte ci portasse ad gustare oggi il meglio delle cosiddette pizze gourmet, quelle cioè che, soltanto per citare i primi di una ipotetica classifica, sono capaci di sfornare artisti del calibro di Enzo Coccia, i tre fratelli Salvo, Gino Sorbillo o Gugliemo Vuolo.
E poi i fritti di Iola. Una goduria per la fattura tutta popolare e la frittura bionda bionda dorata che più bella non puoi trovare.

Sapori d’altri tempi, insomma; la protostoria della Verace Pizza Napoletana che, eterna, sopravvive e fa diventare più che mai attuale proprio lo scambio di battute di Julia Roberts con la sua compagna di pizziata in quel film: “A Napoli è un imperativo morale mangiare e goderti una pizza!”


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