Un bicchiere per due / Vino Bianco Carlaz 2011, Walter De Battè per PrimaTerra

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Le acciughe fanno il pallone, ché sotto c’è l’alalunga, se non butti la rete non te ne lascia una. Hanno paura, le acciughe, e salgono in superficie, senza sapere, senza immaginare. I tonni vanno dritti per la loro strada, uccidono senza fermarsi, a loro volta ignari del destino che li attende. Non riuscivo a togliermi dalla testa De André, che anzi mi dava il ritmo, come quel canto dei marinai di Long John Silver: quindici uomini, quindici uomini… ogni tre ami c’è una stella marina, ogni tre ami c’è una stella che trema. La mia stella era lì con me e aveva davvero freddo, in quella notte di pesca al largo del Mesco. Stava in silenzio, come contrariata per l’inganno da perpetrare ai danni delle povere acciughe. Finché Leone, il padrone della barca, il pescatore, non urlò imprecando che era finalmente il momento di gettare le reti.

Adesso Leone non smoccolava più, anzi cantava contento: la pesca era stata abbondante, noi due turisti e pescatori per caso non avevamo dato troppo fastidio e lei s’era calmata, come se avesse trovato un equilibrio ragionevole tra le perplessità iniziali, lo scintillio fragoroso del pescato e il profumo di frittura che saliva violento e contagioso dalla cambusa. Acciughe fritte, appena tirate su, una goccia di limone, il pane e una bella bottiglia di vino. “Vermentino” tuonò Leone “di quelli duri, mica roba per versiliesi”. Avevamo apparecchiato alla bell’e meglio in coperta, sopra il vano motore: una tovaglia di plastica e piatti di carta. “Belìn, si può anche mangiare con le mani, ma bere si beve in bicchieri di vetro”: su questo Leone non transigeva e riempì tre generosi bicchieri di Carlaz.

Le lampare giocavano coi colori del vino nell’oscurità: eppure il bicchiere lanciava bagliori dorati, al limite dell’ambra, anche se avresti detto di intravedere precisi e intensi tagli di luce arancioni. C’era da perdersi solo a guardarlo, coi toni del giallo che si rincorrevano, dall’etichetta della bottiglia fino al vino nel bicchiere, passando per le acciughe, anch’esse dorate, brumose, crostose, bruciate. Era una specie di osmosi tra odori, colori e profumi: quello della barca, intenso di alghe e nafta, quello del pesce fritto, con sentori di abbrustolito e di fumo, quello del timo e del rosmarino con cui il pescatore aveva arricchito il cartoccio in tavola, quello della frutta matura, del melone e del miele, dello zenzero e della pera kaiser, dispersi tra note balsamiche e piante dalle foglie grasse. Era come se in quel bicchiere si respirasse tutto ciò che ci circondava: spremuto, compresso, che si stirava lento e violento per uscire fuori, per spiegare quei riflessi gialli, dorati, arancioni.

A un certo punto lei si fermò a guardare le acciughe sulla carta paglia e disse che erano pesci poveri da morti, anzi da fritti, per quanto invece ricchi e luccicanti da vivi. ”Sembrano le aringhe di Van Gogh” disse, con un tono come di comprensione per il loro sacrificio, osservandole lì, spalancate, decapitate, arse, le code secche, la pelle accartocciata. Ma non si peritò di prenderne ancora da quelle che Leone continuava a sfornare copiosamente, per mangiarle bollenti, dopo averle appena diliscate con l’unghia del dito pollice. Io cercavo le più piccole per mangiarle in un solo boccone e subito dietro un sorso di vermentino. Potente, rugoso di tannini, roccioso della polvere del marmo delle colline appena prima di Carrara, sapido, vulcanico, bruciante nel finale amaro eppure pervaso del profumo della mela, della susina, contrappuntato da esiti di liquirizia, di resina di conifere, degli spunti rinfrescanti della menta. Quel vino meritava di più di un piatto di acciughe, ma ormai mi ero persuaso che in realtà il Carlaz fosse esso stesso le acciughe, e fosse anche il mare, fosse le alghe e i sassi, la barca, fosse i monti e i boschi che cominciavo a intravedere lontano, di fronte a me.

“Sai che Van Gogh regalò quel quadro a un suo amico, come dono d’addio, come pegno di amicizia? Xenia, la chiamavano i Greci, l’omaggio che lasciavano agli ospiti, spesso qualcosa che raffigurava del cibo o della frutta”. Allora, con quel suo sorriso tenero e risoluto, prese il bicchiere e versò in mare il dito di vino che era rimasto, con un gesto ampio e solenne. “Al mare, al Tirreno, in segno di ringraziamento e amicizia” e si sedette, soddisfatta.

Ogni tre ami c’è una stella marina, ogni tre ami c’è una stella che trema.

Le coprii le spalle con una coperta e mi sedetti accanto a lei. Stava albeggiando e sul mare si rincorrevano bellissimi riflessi. Gialli, dorati, arancioni.

 

Fabrizio De André: Le acciughe fanno il pallone

Melania Mazzucco: Van Gogh e l’arte di conservare le aringhe, RCult, La Repubblica


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