Un bicchiere per due / Trento Brut Domini 2007, Abate Nero

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Anche a Trento può fare molto caldo. Gli amici che le avevavno dato appuntamento in Piazza del Duomo erano in ritardo, e lei, tra un gelato da Grom e un bicchiere di Trento Brut, aveva decisamente virato sul secondo, trovando un tavolino sotto i portici, acquattato in un’ombra secolare. Era come attraversata da una strana eccitazione, forse perché troppo raramente aveva modo di concedersi un po’ di tempo tutto per sé, magari per bere un buon bicchiere di vino gettando uno sguardo distratto sulla gente di passaggio, congetturando cose, tra un sorso e l’altro. Fu così che con un gesto del tutto sorprendente si sedette e accavallò le gambe, per poi ordinare un Trento Millesimato, che a dire il vero scelse anche per una certa assonanza col luogo: Abate Nero Domini 2007.

Bicchiere prezioso, nel suo giallo oro ossidativo, eppure brillante, in una luce amplificata dalle bollicine finissime che risalivano in superficie, dopo che la spuma densa e lattescente si era dissolta in un amen, lasciando refoli di gas a sfrizzolare le ciglia. Non era roba per quei due signori coi polpacci rubizzi fino all’orlo del calzino, perché elegante e fine nei suoi profumi di frutta esotica e miele, di ananas e crosta di pane, eppure non scontato, tantomeno seduto, al contrario dritto e virile in un taglio pietroso che lo rendevano decisamente accattivante.

Quasi come quell’uomo che era appena entrato nel bar, per un caffè che poi aveva deciso di gustare in piedi, sul ciglio della porta, anche lui con sguardo incuriosito verso la piazza. Con un moto di impercettibile impazienza lei accavallò le gambe dall’altra parte, non indifferente a una bellezza ruvida ma composta, una maglia blu e un dito di barba in un metro e novanta dai capelli biondi, pettinati con la scriminatura, come un ragazzo degli anni cinquanta. Anche se lui ragazzo non era più, ci sarebbe mancato altro. Si ritrovò a fantasticare su quell’evidente contrasto tra i modi delicati e gentili, e la rocciosità della figura, al limite della soggezione. Chissà, forse era anche colpa del vino che aveva nel bicchiere, anzi, come per respingere cattivi pensieri, d’istinto sentì che era il momento di berne un bel sorso.

Che le fece bene, catturandola per forza e pienezza, giustamente vivace al palato con un gusto fruttato e balsamico che subito cedeva il passo a una sapidità ancora intatta. Un bere appagante, sebbene non lunghissimo, ma con un finale inconsueto che dall’amarognolo affumicato, sconfinava in una sorta di spremuta di cenere, concentrata e spiazzante, tanto da distrarla un attimo, il tempo necessario per cercare nel profondo della memoria. Così non si accorse che l’uomo dai capelli pettinati se n’era andato, senza nemmeno sfiorarla, come forse lei avrebbe desiderato.

Non c’è gelato né bicchiere di spumante che tenga, rispetto al fresco delle navate di una chiesa, peraltro bella e profonda come la cattedrale di San Vigilio. Si rifugiò lì per qualche minuto, ad assaporare la sensazione ghiacciata dei suoi tacchi sull’antico pavimento a scacchi bianchi e rossi: ma dovette fermarsi al suono di una campanella che annunciava messa. “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…”.

Era lui, irraggiungibile e altero sull’altare. Fece un passo indietro, finendo col riparare dietro una colonna. Sarà stata forse la frescura, più probabilmente il Trento Domini che aveva appena bevuto, ma avvertì distintamente un brivido lungo la schiena. Incenso, ecco cos’era. Chiuse gli occhi e si appoggiò dolcemente a un confessionale, tutta accaldata.


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