di Giancarlo Maffi
Il ricordo del primo risotto, anni cinque, osservando nonna Leonilde detta Linda intorno alla “cucina economica” della casa popolare della Clementina, Berghem de söta. Girava intorno a quella padella. Il Carnaroli manco si sapeva cosa fosse da noi. Penso fosse Arborio o anche peggio. Però la nonna ci teneva ai suoi piatti. Venivano a pranzo i parenti da Milano, mi sembrava a quel tempo che arrivassero da Marte, e la mia vecchietta preferita ci teneva a fare bella figura.
Il bollito l’aveva messo su il giorno prima, chè serviva da piatto forte. Sgrassato il brodo, venuto a galla con il freddo della notte novembrina, chè non mi pare avessimo il frigo, lo buttò bollente dentro alla casseruola dove già schioccavano soffritto, riso e un bicchiere di improbabile bianco da battaglia, forse un Folonari due litri tappo corona. I parenti già a tavola con un salamino Negronetto e due sottaceti, forse Saclà, e però la polenta era quella gialla a grano grosso che mi piaceva tanto, riscaldata a fette sulla stufa, quella stufa che un giorno quasi ci uccise tutti per esalazione di monossido. Doveva venire anche l’altra nipote Vittoria con il fratello Ezio, quello che ora fa il gelato qui in Versilia, ma certi screzi del cazzo con mia madre ne impedirono l’arrivo. Al primo profumo di burro nel soffritto di cipolla corsi in cucina, si fa per dire perché c’era solo un metro dalla sala, e mi soffermai lì beato su una sedia a guardare nonna Linda che girava Il mestolo di legno. Il colpo di fulmine venne quando ci buttò dentro una polvere rossa, profumata forte, goduriosa, di un colore che incredibilmente nella casseruola diventò giallo uso crema pasticcera da trentasei tuorli. Rimasi a bocca aperta e inconsciamente decisi che quello era il piatto della vita, fosse giallo, verde, rosso o perfino bianco. Questo il teletrasporto quando l’altra sera, al bilionesimo risotto della mia vita, Igles Corelli, un giovane chef di origini ferraresi con un buon futuro, mi mise davanti, accucciato in posizione fetale dentro a un piatto nero elegantissimo, il suo Mojito di Parma. Da quel giorno della Clementina sono passati più di 50 anni, porca troia: l’unico pensiero cattivo che mi ha attraversato la testa. Il Mojito è bianco, c’è il lime e c’è la menta. Ci sono tre fantastici parmigiani di diverse annate in consistenze complementari. C’è il manico di Corelli, la sua terra, le visioni, le commistioni di mondi diversi. Insomma, c’è lo schizzo del Carnaroli Acquerello settemila anni, buttato sulla tela nera da un artista probabilmente juventino. Se non è arte questa, poco ci manca. Chissà se queste due righe convinceranno alcuni amici campani a prendere su baracca e burattini e venire a Lamporecchio. Quindici minuti dall’uscita di Montecatini Terme, feudo del cardinal Ciomei. Corelli lo toglie dal menù a fine giugno. Se non verrete vi perderete un pezzo di vita. Potrei tollerare perfino un calabrese residente a Roma, qualora portasse un gin tonic potabile e una magnum acida fresca e nobile…Precisazioni tecniche: i tre parmigiani sono un 24 mesi in mantecatura, un 36 in “aria”, e un 64 in gelato.
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