di Marco Lungo
“Il giorno dopo è più buono”. Praticamente, una Verità Assoluta quando parliamo di pasta al forno come nella migliore tradizione napoletana, o frittate con verdure o pizze rustiche. Sono cose che la maggioranza di noi accetta senza riserve, direi, no? Sì, però, perché è così? In effetti, a prima vista non sembrerebbe possibile che lo sia, di primo acchitto tutti siamo portati a pensare che una cosa fresca, appena uscita di cottura, sia meglio di una “passata”, eppure in molti casi non è così. Ci sono dei motivi scientifici o vicini ad essi che facciano comprendere il perché, dopo una giornata almeno, certi piatti siano “migliori”? Vediamo, io ci provo a dare qualche spiegazione, poi ditemi che ne pensate voi.
Innanzitutto, partirei da quello che sembra un paradosso: ma come, e soprattutto al Sud, la pasta piace al dente ma, se la mangio addirittura il giorno dopo, come può mai piacermi di più? Beh, questo è semplice da capire. Il passaggio della pasta nel forno, infatti, la essicca da buona parte dell’acqua di cottura, quindi “fotografa”, in un certo senso, la situazione di gelatinizzazione degli amidi e di consistenza della pasta, soprattutto negli strati superficiali, quindi rimane in uno stato molto simile alla cottura al dente anche per giorni, anzi, addirittura la pasta che era passata di cottura in origine, in un bel timballo assurge a nuova dignità, però sempre il giorno dopo, per quello che ho detto. A caldo, c’è ancora troppa umidità in giro.
Ho detto “gelatinizzazione degli amidi”, e adesso mi spiego: è il nome che ha, scientificamente, il processo attraverso cui gli amidi della pasta secca vengono portati ad avere una configurazione molecolare che si dice “caotica” e, in tale forma, risultano più digeribili per il nostro organismo. Questo si ottiene immergendo la pasta secca in acqua calda ad almeno 70 gradi circa, per un tempo più o meno lungo in funzione dello spessore della pasta. Ecco perché la pasta si cuoce. O avete notizia di qualcuno che si mangia la pasta così, come uscita dalla scatola, condita e portata in tavola?
E le frittatine e similari al forno? Meglio, una sana melanzana alla parmigiana, va’, tanto per accettare una sfida pesante? In queste non c’è la pasta, quindi? Secondo me, a parte che ovviamente il giorno dopo non si ha a che fare con le temperature di un qualcosa appena uscito dal forno, cosa che già di per sé irrita subito le papille gustative ed il palato tutto, penso che i processi siano diversi e siano anche in comune con le paste di cui parlavamo prima. Credo che il passaggio dei condimenti, anzi, no, meglio, il loro permeare lentamente le verdure con il tempo, tempo che sicuramente non è passato appena sono state fatte, sia la chiave per comprendere meglio il fenomeno. Non mi spingerei oltre pensando che, appunto, un bell’insieme di verdure che si siano intrise a fondo dei sapori e degli aromi dei condimenti, diano ben altra soddisfazione rispetto a quando il piatto sia stato appena sfornato.
Aromi, odori, sapori… sì, però perché un piatto freddo dovrebbe averne di più? Proviamo a ragionare. La questione del percepirli, è legata al fatto che essi siano ovviamente prima di tutto presenti, e che poi siano in qualche modo messi a contatto con i nostri organi del gusto. Ora, quello che avviene in un piatto caldo è che alcuni veicoli sono attivi, o sono proprio i componenti volatili di alcuni elementi che ci fanno spesso dire “Che buon profumino” quando entriamo in cucina o ci portano il piatto in tavola. In un piatto freddo, questo non accade. Quello che accade, invece, è che la parte di batteri comunque presente e che in presenza di formaggi soprattutto, sviluppano a loro volta ulteriori sapori rispetto al momento della cottura. Non pensate che, con la cottura, muoiano tutti. Certo che accade, almeno negli strati superficiali (al centro di un cibo di un certo spessore, cotto nel forno, spesso non si raggiungono temperature di sterilizzazione), però poi non è che il cibo finisce in una camera sterile. Già lo stare all’aria o anche solo il toccarlo con coltello e forchetta, che non sono sterili ovviamente, induce l’inizio di una attività batterica in loco, che poi si nutre di quello che trova come ingredienti del nostro piatto e, in funzione di alcuni processi, produce degli elementi che noi percepiamo al gusto e/o all’olfatto. Quindi, se noi sforniamo una teglia di un qualcosa dal forno, lo sporzioniamo, lo mettiamo sui piatti, lo mangiamo o assaggiamo anche solo in teglia, riportiamo delle colonie batteriche sul nostro cibo, facendo sì che esso non sia più pressoché sterile come dovrebbe essere dopo decine di minuti in forno ad alta temperatura.
E che cosa succede quando, il giorno dopo o dopo ancora, lo riscaldiamo per mangiarlo di nuovo? A questo punto, abbiamo capito che ci sono più prodotti di attività batterica in giro, quindi più aromi potenziali, e perciò il calore riattiva quella fase di veicolazione che si presenterà quindi più carica di profumi e, perciò, più ricca del giorno precedente.
Potremmo parlare anche dei sistemi per riscaldare, sì, tipo il microonde. Preferirei, però, parlarne a parte di quest’ultimo, perché ne sento di tutti i colori al riguardo, con sfondoni assolutamente inaccettabili ma detti da persone che addirittura stanno in televisione e che, quindi, ciò che dicono diventa Verità Inattaccabile. Invece di fare più chiarezza al riguardo del microonde, con gli anni siamo andati sempre peggio. Giusto in Italia, Paese con ormai spirito critico del tutto assopito, può succedere una cosa del genere.
Insomma, il giorno dopo è più buono.
Dai, ditemi che cosa ne pensate.
Intanto, vado a scaldarmi una lasagna.
Non scherzo.
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