Capita a volte, raramente in effetti, di poter partecipare ad una degustazione dove i protagonisti sono di grande, grandissimo calibro.
A me è capitato recentemente in un’enoteca di Milano, La Cieca Pink, nata dall’idea di un amico follemente appassionato di vino e con idee visionarie: Michi Mamoli, varesotto d’origine e milanese d’adozione fin dall’infanzia, che qualche anno fa ha aperto un’enoteca in Via Vittadini, sempre a Milano: La Cieca e, sull’onda del successo ottenuto, sancito non solo dai santi bevitori più o meno noti, ma dalla grande frequentazione di produttori che per Michi sono grandi amici e compagni di serate all’insegna del buon bere, ne ha aperta una seconda insieme a quattro donne molto determinate e tutte professioniste in settori diversi: Vera Arcari (medico legale), Sara Moro (avvocato), Monica Casiraghi (chirurgo toracico) e Marta Mungo (attrice), le Pink Girls appunto.
La Cieca Pink offre sempre dei grandi vini ma con un’impronta più femminile, per quanto io non apprezzi molto questo tipo di distinzione, forse perché bevo come un alpino (NdA) e nella loro wine list non mancano mai infatti rosati di ogni genere e di ogni regione, italiana e straniera.
La serata è stata organizzata per pochissimi appassionati che, per una cifra che definirei irrisoria davanti a siffatti mostri, hanno potuto godere di alcune rarità fra gli Champagne più preziosi.
Ma i grossi calibri non erano solo i contenuti delle bottiglie, no di certo.
A condurre la degustazione Michi ha chiamato l’amico Luca Gardini che, ovviamente, non ha bisogno di presentazioni.
Ecco il plotone al completo:
Comandante: Luca Gardini
Primo Ufficiale: Michi Mamoli
Le bottiglie in azione:
- Ayala Extra Quality Brut 1965
- Perrier-Jouët Grand Vin Brut 1975
- Louis Roederer Brut 1975
- Bollinger Special Cuvée Brut 1966
- Krug Grande Cuvée 1978
- Krug Private Cuvée 1964
- Billecart-Salmon BdB 1964
Non tutte le cuvèe erano millesimate quindi la data riportata a fianco è relativa al presumibile anno di imbottigliamento , con una certa tolleranza di 1-3 anni, dopo una attenta ricerca fondata sulle notizie date dagli unici proprietari delle bottiglie, al design dell’etichetta e dal nome degli allora distributori (dove presente), alcuni dei quali non esistono nemmeno più.
Luca prende subito il comando della situazione ed enfatizza il fatto che parecchi di quei vini, quasi tutti invero, lui non li ha mai provati, perlomeno non risalenti a quegli anni. Si tratta quindi di un’emozione che andremo a vivere tutti insieme, senza distinzione di ruoli e di appellativi.
Per lui, e per tutti noi, il vino è prima di tutto convivialità, “partage”, condivisione di un grande piacere.
Non si perderà quindi in presentazioni didattiche, terminologie altisonanti e descrittori olfattivi.
Questi vini meritano ben altro!
Tutte le bottiglie sono state messe al fresco in tempo utile e vengono servite in singoli seau à glace per mantenere la temperatura (anche se non serve perché una volta aperte si svuotano in men che non si dica).
Il primo a essere aperto e servito è l’Ayala, 1965.
Il tappo si rompe ma Luca riesce comunque a togliere l’ultima parte rimasta nel collo della bottiglia.
Temo già per la sua integrità!
Lo versiamo nel bicchiere e quel che colpisce immediatamente è la sua limpidezza, profonda ed estrema.
Nessun perlage, nessuna ombra di “train de bulles”, come ci aspettavamo del resto, ma la luminosità di un colore dorato carico e pieno, come se si volessero concentrare tutti i carati in un solo bicchiere.
L’impatto olfattivo è di distillato e oltre, un vino un po’ cotto, forse non più godibile. Ma lasciamolo respirare…
Dopo tutti quegli anni in bottiglia sarà un po’ anchilosato, no?
Il palato invece è sorprendentemente fresco, piacevole, immediato.
Le note iniziali di brandy si fondono con quelle di crosta di pane tostata, crema pasticcera, tabacco dolce e miele, con qualche spunto di albicocca candita.
E’ talmente sorprendente che devo chiudere gli occhi per cercare di gustarmelo ancora di più.
Luca intanto, stupito tanto quanto noi dalla ancora fremente bellezza di questo vino, si appresta ad aprire la seconda bottiglia, il Perrier-Jouët 1975, che però non ha la stessa sorte fortunata della prima.
In effetti anche se il naso poteva condurre il pensiero ad una replica del primo bicchiere la speranza non si è tramutata in realtà e il vino, definito stanco e proveniente da una annata non particolarmente felice, si rivela un semplice soldato in congedo forzato.
Purtroppo con il Bollinger la valutazione è stata pressoché impossibile perché “le bouchon” ha lasciato traccia nel vino e i profumi, così come il gusto, ne sono stati fortemente penalizzati.
Viene subito versato il Roederer, sempre 1975, che però, in comune con il precedente, ha solo la presunta data di imbottigliamento.
Anche in questo caso colpisce la trasparenza e luminosità nel bicchiere. Giallo oro carico, stracarico e tanto confortante e maturo.
Sentori di caramello, arancia candita, persino curcuma e tanto tanto lime.
E’ sapido questo Champagne, anzi questo vino.
E’ una magnifica prova di quanto possa essere adatto ad un lungo invecchiamento, in barba a tutti i luoghi comuni.
Una riconferma, semmai ve ne fosse bisogno, che è il vino più buono del mondo, quello di cui non posso fare a meno, quello che cerco tutte le volte che mi siedo a tavola, sia a casa che fuori, quello che mi tiene compagnia anche se non sono a tavola e che mi fa sognare appena riesco a liberare la gabbietta di metallo dalla “coiffe” che la riveste.
Arriva anche il tempo di Sua Maestà Krug, con la Private Cuvée, con elegantissima etichetta bianca, presumibilmente degli anni ’60, e la Grande Cuvée, con etichetta oro e amaranto, risalente alla fine degli anni ’70.
La Private Cuvée è la tipologia che ebbe origine dall’antesignana Cuvée N. 1 e che precede la Grande Cuvée, quella che tutti ormai conosciamo.
Per me, e sono sicura di non essere l’unica, la Grande Cuvée, rappresenta in modo preciso e cesellato la quintessenza della filosofia Krug.
In un unico contenitore si congiungono, in modo armonioso, non solo una serie di vini innumerevoli, provenienti dai migliori Cru delle vigne Krug, anche sino a 120, che vanno indietro fino a 12 e più anni, ma anche la filosofia di una famiglia di produttori, la famiglia Krug per l’appunto, che rivendica in ogni singola bottiglia l’unicità di uno Champagne fatto per piacere, per sorprendere, per durare nel tempo e dove la qualità è l’unico obiettivo possibile e perseguibile.
E la coppia d’assi rivela ben presto la sua “grande bellezza”.
Oro colato nel bicchiere, miele e nespola fusi dolcemente nell’aria, sorso pieno di tanta materia croccante. Aristocratica semplicità.
Li guardo e riguardo, annuso, sorseggio. Variazioni percettibili in un battito di ciglia.
Meraviglia, rispetto, emozione. Penso alla storia, penso alla fatica, penso a quanto sono stata fortunata ad averne anche solo una infinitesima parte.
Conscia di quanto sarà difficile surclassare i due capolavori appena bevuti (ma ancora gelosamente conservati nel bicchiere per “sentirne” l’evoluzione), Luca apre l’ultima bottiglia: Billecart Salmon Blanc de Blancs1964.
Questo è un millesimato vero. E che millesimo caspita!
Annata straordinaria in Champagne, une vendange à 5 étoiles.
Appena lo verso nel bicchiere il colore mi sorprende. Non è così ambrato come gli altri.
Ritorna la grande limpidezza che invece è stato il minimo comune denominatore di tutti gli Champagne della serata.
Il profumo invece mi fa sobbalzare. Non vi trovo nessuno dei sentori che mi sarei aspettata e che avevo sentito negli altri.
Scopro invece una grande e sorprendente finezza. Profumi di pesca sciroppata e di cedro, di confettini zuccherati e di mimosa.
Il sorso è snello, vibrante, piacevole con una freschezza senza pari che prende al centro della bocca per spostarsi più ai lati con una persistenza affascinante.
Classe vera, pura. Eleganza senza tempo.
Avete presente Grace Kelly in “Caccia al ladro”?
Questo solo per darvi una minima idea dell’immagine immediata che mi è sopravvenuta bevendo questo Champagne, sicuramente fra i migliori assaggi della mia vita.
E penso che in questo momento non avrei voluto essere da nessun’altra parte se non esattamente in quel posto, con quegli amici e con quei vini che sono, senza minima ombra di dubbio, apprezzati dai palati più allenati.
Gli uomini creano storie e le raccontano. I vini le ricordano e le perpetuano.
I grandi vini la fanno la storia, e non hanno bisogno di uomini che ne parlano, o che ne scrivono, anche se a noi piace questo esercizio per avere una testimonianza da condividere e da lasciare a chi verrà.
I grandi vini non temono il tempo perché diventa il loro alleato più prezioso e una prova evidente che il presente si costruisce sul passato, quello fatto dai grandi uomini.
Grazie Michi, grazie Luca. Questo è un pezzo di vita che custodirò per sempre.
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