di Fabrizio Scarpato
Da tempo mi chiedo perché la gente lascia gli ombrelli rotti agli angoli delle strade. Facile sarebbe dire per maleducazione, sottintendendo un gesto inconscio, inconsapevole. Non so, ma io credo che sia per lasciare traccia di sé, dopo esser stati spezzati o spazzati via da una folata di vento. Testimonianze di vite usa e getta, senza più nulla da recuperare, senza attrezzi per riparare: ombrelli snervati, smembrati, malvissuti, che non servono più. Sarà anche per questo che non uso l’ombrello: per non fare la stessa fine. E già illudersi sembra un buon modo per non finire disarticolato sul marciapiede. Quando piove cammino rasente i muri o sfido la pioggia, dipende dall’umore: tanto alla fine mi bagno solo il naso.
E dire che da noi piove spesso. Eppoi pensare agli ombrelli mi fa venire in mente quel film girato a Cherbourg: non tanto per gli ombrelli, quanto per la Deneuve. Anzi nemmeno per lei, ma per Françoise, che in qualche modo le somiglia. In qualche modo.
“Da uno a dieci: quanto stai pensando a una gnocca con nome e cognome? Undici”. Quel gran figlio di puttana di Routtier era venuto a trovarmi con la scusa di guardare insieme la partita della Francia con l’Italia: ormai stava diventando un’abitudine, e nemmeno sembrava portar bene, per dirla tutta. Ma vedere Frigorifero Bastareau portarsi appresso per venti metri cinque italiani che gli stavano aggrappati più per paura di finirgli sotto i piedi che per reale intenzione di fermarlo, ci aveva messi subito tranquilli, lasciandoci liberi di parlare d’altro. E quando si parlava di gnocca, Routtier era imbattibile. Solo Chabal si ostinava a seguire il rugby e anzi si incazzava, forse per gelosia, forse perché avvertiva la sottile inquietudine di sentirsi vecchio e inaffidabile, e con tutte le sue forze sperava di non finire abbandonato sulla strada, come un ombrello divelto e sbrindellato.
“Guardati come sei vestito. Fai schifo. E quando fai schifo è buon segno: c’hai della gnocca per le mani”. In effetti. Cioè in effetti ero vestito come capita. E’ come un riflesso condizionato: quando tutto concorre a una sovraesposizione tendo ad adottare ogni stratagemma per cancellarmi dal contesto, non foss’altro per non fornire alibi alla sincerità. Mi fanno pena gli uomini che corteggiano le donne: sono così prevedibili, al limite del patetico, le facce come segnate dal cerone dell’avanspettacolo. E poi a me del vestire frega poco in assoluto: compro camicie nuove che accumulo nei cassetti, incellofanate. Non mi piace indossarle se prima non sono stato costretto a gettarne via un’altra, perché lisa, macchiata, strappata. E mi adopero perché questo accada, punendomi con vecchie camicie che non ne vogliono sapere di schiattare. Indossare una camicia nuova è come tagliare i fili col passato, in un anelito di futuro: una cosa impegnativa, che non può accadere per caso, tantomeno essere esibita. Forse è così anche con le donne. E io, adesso, non ho nessuna voglia di scartare, stirare e indossare una camicia nuova. Ma con quella faccia vigliacca che solo un naso come il mio può consentire, so che nel cassetto c’è una camicia che mi piacerebbe incignare: da emerita merda quale sono, mi nascondo in infeltrite flanelle o in maglioni slabbrati a collo alto.
“Dai, fatti bello che andiamo da Pepé a Trouville a mangiarci una pizza. M’hai tanto frantumato i camemberts con quella pizza di Roma che ora voglio provare anch’io”. Non tardai un secondo a mandarlo a quel paese: Pepé il turco la pizza non sa cosa sia. E Routtier, con la faccia da schiaffi che indossa quando vuole vincere facile: “Dovresti sapere che ora c’è un pizzaiolo italiano…”. Non lo sapevo: d’altra parte è un po’ che non frequento ristoranti. Ci andavo con Mariana, prenotava lei, perché io mi son rotto di esser preso per il culo se prenoto a nome Michelin, tantomeno mi va di inventarmi un nome. A volte, a dire il vero, uso quello di mia madre, Vergassola: non capiscono un cazzo e io vado tranquillo.
Il pizzaiolo era napoletano e si chiamava Fortunato D’Amore, Nato per gli amici. E noi lo siamo diventati dopo che Routtier, che nel frattempo aveva recuperato la sua normale dimensione di coglione, gli aveva detto che avevamo assaggiato una fantastica pizza. A Roma. Come attraversato da una furia erinnica, Nato cominciò a sfornarci tutte le pizze dell’Ave Maria: il forno a legna, appositamente costruito, m’è parso, da artigiani della Bassa Padana, eruttava lapilli e lava, mentre lui, avvolto in una nuvola di farina, sfidava il chilometro mille gettando un cuore di mozzarella di bufala oltre l’ostacolo. Lo dovemmo fermare quando la trance agonistica gli fece partorire una composizione con mele, patate e gamberetti grigi, mentre ancora non ci eravamo ripresi da una bianca con pere e Pont l’Evêque stagionato cinquanta mesi nella minuscola bastide di un vecchio fermier in un piccolo village del Pays d’Auge.
Col freddo e il buio delle nostre parti, la gente spesso resta nei locali fino a tardi, magari cantando canzoni e storie di marineria, la tristezza e la bellezza delle quali è direttamente proporzionale alla quantità e alla qualità della birra e del calvados bevuti. Noi non si fece eccezione: mi ero rannicchiato in un angolo, divertito, finché Fortunato D’Amore, stravolto di stanchezza e attraversato da una velo di malinconia negli occhi cerulei, non accettò di cantare una canzone del suo paese. Nessuno dei presenti capiva un’accidenti di quello che diceva, forse era possibile intercettare parole dal suono familiare come chanteuses, o cerises, ma il ritornello lo cantavano tutti, più o meno, e io con gli altri, sussurrando parole che, quelle sì, ero in grado di capire bene. Era una storia d’amore finita male in cui, come spesso accade, qualcuno non si rassegna all’evidenza, nutrendo patetiche speranze, dettate da rancorose rivincite. Una parola mi colpì: un attimo prima di cantarla, Nato si portava la mano alla fronte e dopo una pausa di una frazione di secondo la pronunciava, mentre la mano volava via con un gesto leggero nell’aria. Distrattamente. E non intendeva un pensiero superficiale e frettoloso, sembrava più un riflesso inevitabile, una necessità.
Minaccia pioggia stanotte. Un ragazzo sulla passeggiata suona Take Five col sax. Mi incammino dopo aver lasciato Routtier a sacramentare con Nato e Pepé. Nel controluce dei lampioni mi vengono incontro quattro ragazze, ben vestite nei loro tubini scollati che si intravedono sotto i soprabiti. Una ha capelli lunghi, riccioli e neri. Rallento il passo e incrocio i suoi occhi. Ride di me con le amiche, forse imbarazzata, mentre si allontana. Inciampo in un ombrello sgangherato abbandonato per terra e lo sguardo si ferma sulle luci lontane del porto di Le Havre, di là dal mare e dal fiume.
Potrebbe essere New York, mentre il sassofono insiste morbido sul ritmo in cinque quarti. Mariana sono qua. Guardami. Distrattamente.