di Mimmo Gagliardi
Lasciarsi il mare di Gallipoli alle spalle è sempre un dispiacere, ma se devi farlo per addentrarti nel cuore del Salento e andare a trovare un amico allora il discorso cambia. Viaggio verso Tuglie (LE), dove mi aspetta Giovanni Calò, per raccontarmi della storia della “Michele Calò & Figli”, che conduce insieme al fratello Fernando.
Il paesaggio è un alternarsi di campi di cereali, vigneti e uliveti. Gli ultiveti secolari (al pari degli autovelox, i cui proventi per i Comuni sono divenuti l’unico modo per raggranellare fondi nel post-devolution) mi costrigono a rallentare l’andatura dell’auto per ammirarli: le piante sono magnifiche sculture di legno, vivi dentro anche quando al di fuori sembrano secchi e dalle forme più assurde che nessuna mano artistica, seppur brillante e talentuosa, avrebbe mai potuto disegnare.
Al mio arrivo in cantina fa caldissimo, c’è un sole splendente e un cielo terso come quasi mai in quest’estate. Giovanni mi accoglie in un fresco ufficio ma è la struttura del fabbricato ad aver attirato subito la mia attenzione e il mio occhio da tecnico. Più avanti ne parlerò in dettaglio.
L’azienda è stata fondata una sessantina di anni fa da Michele Calò, venuto a mancare, purtroppo, da poco più di due anni e produce, mediamente, circa 150mila bottiglie dai 26 ettari di vigneti tenuti in affitto e condotti dietro controllo di tecnici aziendali e sotto il vigile occhio dei fratelli Calò, Giovanni8 e Fernando. La disposizione dei vigneti è molto variegata e parcellizzata sul territorio nei dintorni di Tuglie, Sannicola, Parabita e Alezio che, per caratteristiche geologiche proprie della zona, presentano notevoli differenze di resa a distanze minime (talvolta di decine di metri) tra i vari appezzamenti. Michele Calò, nonostante le limitate informazioni tecniche disponibili all’epoca, aveva capito in anticipo come leggere il territorio con quell’intuito e quella saggezza antica del contadino che sa ascoltare il terreno e, dopo un notevole lavoro di analisi, selezione, prove di microvinificazione, di uvaggio, eccetera, ha capito come tirare fuori dalla terra rossa e sassosa di quel fazzoletto di Salento vini sempre più buoni e veri.
La storia della famiglia Calò è una storia fatta di sudore e fatica, di scelte, talvolta dolorose, dispendiose e dispendiose, di viaggi in Nord Italia e di ritorni al Sud. Ma è anche la storia di chi, con le sue scelte, ha tracciato la strada per poter migliorare il comparto del vino pugliese, dove ancora in tanti scelgono la l’autostrada della quantità a buon mercato rispetto a chi viaggia sulle complanari sterrate della qualità al giusto prezzo. Oggi, grazie alle parole di Giovanni ho percorso un bel tratto di queste strade insidiose, piene di buche e di incroci pericolosi, però ho anche toccato con mano cosa significa costruire una struttura intorno al vino e non il contrario, come spesso accade.
Il fabbricato dove ha sede la cantina, infatti, contempla, al piano terra e seminterrato, gli ambienti dedicati all’attività aziendale, mentre, al primo piano, vi sono gli alloggi per la famiglia. Quello che stupisce è la lucida progettazione di una struttura reticolare in cemento armato, in cui le vasche di cemento per la fermentazione del mosto sono state pensate e costruite quale parte integrante della struttura portante dell’intero edificio aziendale. La disposizione delle vasche, della bottaia e l’accessibilità per le operazioni di cantina in tutti gli ambienti, mi lasciano interdetto per la modernità della sua concezione, anche se la costruzione risale all’anno 1969. Giovanni mi conferma che l’unica opera di innovazione effettuata da allora, peraltro senza stravolgere nulla e senza modificare alcun elemento costruttivo o decorativo originario, è l’installazione del sistema di refrigerazione delle vasche.
Dopo aver saggiato i vini aziendali, da innamorato del Salento, ho deciso di approfondire la conoscenza delle due tipologie di rosato che produce la Michele Calò & Figli: il Mjere Salento Rosato IGP e il Cerasa Salento Rosato IGP per la loro tecnica di realizzazione.
Il Mjere (dal latino Merum, cioè vino vero, sincero) fa parte di una linea che comprende anche un bianco e un rosso, ambedue di ottimo livello. Questo vino viene ottenuto da un blend di uve Negroamaro per il 90% e Malvasia Nera di Lecce per il 10%, provenienti da vari vigneti e raccolte, in genere, ma non quest’anno (che ha portato circa 15 giorni di ritardo un po’ dovunque, anche qui nel Salento), intorno alla prima decade di settembre.
Il Cerasa, invece, è ottenuto unicamente da uve Negroamaro provenienti
dal solo vigneto Prandico, sito ad Alezio (LE), raccolto nella medesima epoca di vendemmia del Mjere rosato.
Ambedue i rosati vengono vinificati con una particolare metodologia, che appartiene alla tradizione e che è definita “a lacrima”, dove le uve, diraspate e appena pressate dal peso stesso degli acini, fanno dapprima una macerazione variabile tra le 16 e le 18 ore, a seconda del grado di maturazione e dell’intensità di colore da ottenere, e poi sgrondate per alzata di cappello. Solo e al massimo, il 30% del mosto così ottenuto viene trasferito in vasche di cemento a temperatura controllata di circa 18°C per la fermentazione che, per il Mjere Rosato dura 7-8 giorni, mentre per il Cerasa dura circa 10 giorni. Fino a qui il processo di produzione è pressoché lo stesso (tranne che per la durata della fermentazione); successivamente il Mjere completa il suo percorso per intero in vasche di inox, riposando sulle fecce fin quando non viene giudicato pronto per l’imbottigliamento, mentre, per il Cerasa, l’80% della massa trascorre in inox il periodo di affinamento e il restante 20% si affina in barriques di rovere francese prima di essere assemblate in un unico contenitore di inox e l’imbottigliamento avviene dopo un ulteriore periodo di affinamento di durata variabile.
Del Mjere Rosato se ne producono al massimo 45.000 bottiglie, mentre per il Cerasa si arriva a circa 10.000.
Il Mjere rosato del 2013, che ho saggiato in azienda, si presenta con uno splendido colore rosa dalle sfumature corallo. Al naso mi colpisce subito un’essenza balsamica che mi richiama la macchia mediterranea ma, in modo netto, un origano selvatico e intensissimo che cresce sulle scogliere di fronte al mare gallipolino (che raccolgo ogni anno per uso strettamente personale) al pari degli aromi fruttati rossi di melograno, ciliegia e lampone. Al sorso la bella acidità e i tannini lievi e gradevoli rendono il sorso forte e deciso, mentre la corposità del vino e l’alcolicità donano soddisfazione al palato mentre il vino chiude con una salinità propria dello Jonio. La brezza marina invade il retronasale insinuandosi tra le sensazioni balsamiche e fruttate. Molto bello. Definirlo territoriale è riduttivo. E’ un vino che riflette pienamente questo lembo di Salento tra il mare Jonio e le terre immediatamente circostanti.
Il Cerasa del 2012, che ho saggiato quest’anno insieme a persone speciali, si presenta con un colore rosa vivo e tendente al cerasuolo. Il naso si concentra su aromi di frutti rossi di bosco e ciliegia con una bella nota di rosmarino e qualche richiamo alla terra rossa salentina. Il sorso è fresco, accattivante. I tannini ci sono ma accompagnano la beva rendendola più netta mentre il vino chiude salino di mare. Il legno, in cui trascorre quel 20% della massa, non si avverte se non nelle belle note retronasali di radice di liquirizia.
Consiglio di non servirli freddissimi, intorno ai 10-11°C, per poter godere pienamente del loro favoloso bouquet.
Come ho detto ai fratelli Calò, sono entrambi vini che hanno un solo grande difetto: finiscono subito e si abbinano a tutto. Li abbinerei ai frutti di mare crudi e al sushi salentino del porto di Gallipoli, oppure ai Ciceri, Trie e Cozze (pasta e ceci con le cozze e strisce di pasta fritta), ma potrei andare avanti per ore….
Michele Calò & Figli
Via Masseria Vecchia, 1 – 73058 Tuglie (LE)
Tel + fax 0833596242
coordinate navigatore satellitare: 40°04’23.55’’N – 18°06’24.64’’E
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