di Luca Miraglia
Ritorno alle origini: così potremmo presentare, in estrema sintesi, il senso più profondo dell’iniziativa imprenditoriale avviata, nel 2005, dalla famiglia Fonzone Caccese, di origini irpine ma napoletana d’adozione per l’eminente ruolo svolto in campo medico dal professore Lorenzo, il quale ha voluto rendere un concreto omaggio alla propria terra natia attraverso un importante e lungimirante investimento nel settore vitivinicolo a Paternopoli. E’ questa notoriamente una delle località più vocate per il vitigno principe dell’Irpinia, l’Aglianico, ed infatti rientrante nell’areale della DOCG Taurasi, sottozona Campi Taurasini.
E di ritorno alle origini si è trattato anche per le serate di degustazione organizzate presso l’enosteria Cap’alice, iniziate un bel po’ di tempo fa proprio con l’Irpinia con un’ altrettanto interessante realtà di Paternopoli, per la prima volta uscita dal suo guscio di ritrosia e timidezza grazie all’entusiasmo coinvolgente di Marina Alaimo…ma questa è un’altra storia.
Invece l’azienda Fonzone si è presentata agli appassionati che, da sempre, affollano il simpatico locale di Mario Lombardi, come una realtà fondata su solide basi e sulle profonde sinergie già oggi percepibili tra le diverse professionalità presenti: i fratelli Davide e Gabriele Fonzone, responsabili – unitamente alle consorti – degli aspetti commerciali e di relazioni esterne, e l’agronomo, nonché enologo, Arturo Erbaggio, allievo del professore Luigi Moio, responsabile delle scelte in vigna ed in cantina.
E’ stato quest’ultimo a tracciare un interessante ritratto del territorio irpino che, pur essendo latore di vini di grandissimo spessore ed indiscussa longevità, sia bianchi che rossi, non riesce ancora – per un’atavica mancanza di coesione tra i produttori – a presentarsi al mercato con un’immagine forte e ben caratterizzata, tanto da risultare geograficamente quasi sconosciuto oltre i confini nazionali, proprio là dove operano i principali buyers, in grado di segnare la fortuna di un’azienda.
Ed i vini presentati nel corso della serata hanno sicuramente le carte in regola per affermarsi: abbiamo assaggiato le due annate più recenti (2012 e 2013) sia di Fiano di Avellino che di Greco di Tufo, nonché il millesimo 2011 di Aglianico Campi Taurasini.
Le uve del Fiano provengono da un vigneto sito nel comune di Lapio – uno dei più vocati per la denominazione – in contrada Arianello, considerata quasi un cru; viene vinificato interamente in acciaio, per preservare il più possibile le note organolettiche tipiche del vitigno.
Le annate assaggiate hanno sorpreso per la diversità che le caratterizza, a partire dal colore: classico giallo paglierino per la prima, mentre la più recente si è presentata con spiazzanti tonalità dorate; anche le note olfattive e gustative percorrono binari differenti: il 2012, figlio di un’annata di grande equilibrio climatico, è quasi timido al naso, pur evidenziando un ampio quadro di profumi, da sentori erbacei a punte agrumate; al palato la spinta acida è esuberante e molto gradevole, lasciando presagire – come per i migliori esempi della tipologia – un lungo avvenire.
Il 2013, se da un lato mostra una maggiore sicurezza interpretativa, denota un’inattesa opulenza, quasi non si trattasse di un’annata così recente: inconfondibili al naso le note agrumate, mentre il sorso è di grande energia, pur se, a mio parere, di eccessiva morbidezza in considerazione della giovane età.
Non è da meno, quanto a provenienza, il Greco di Tufo (anch’esso vinificato esclusivamente in acciaio): la mitica collina di Santa Paolina, ben nota agli amanti di questo vino sia per la spettacolarità dei suoi ripidi pendii sia per la presenza, proprio lì, delle vigne di alcuni fra i più prestigiosi interpreti della denominazione.
Il 2012 colpisce immediatamente l’olfatto per i chiari ricordi di sauvignon, molto piacevoli, cui seguono note sulfuree, di frutta matura e di spezie particolarmente aromatiche, come l’anice stellato; il palato conquista con la sua profondità, unita ad una spiccata e quasi ruvida acidità, segno inconfondibile di grande propensione all’invecchiamento.
Il 2013 mostra un’esuberanza ed una concentrazione quasi atipiche per un vino così giovane, forse frutto di rese bassissime, e denota spunti espressivi interessanti già dal naso (macchia mediterranea, salvia, pepe bianco), per poi giungere ad un gusto graffiante, pieno di energia, foriero di alte aspettative.
Siamo giunti all’unico rosso della serata, l’Aglianico Campi Taurasini 2011, proveniente dai vigneti di Paternopoli, siti intorno ai 400 metri di altitudine; la macerazione sulle bucce avviene in acciaio, mentre l’affinamento, di 12 mesi, si svolge in barriques francesi di primo e secondo passaggio.
Anche in questo caso, e forse più che per i bianchi, l’assaggio è stato spiazzante: un vino che, pur se molto giovane, mostra una conformazione già ben delineata, a partire dalla brillantezza del colore, per proseguire con la nettezza e tipicità dei profumi (ciliegia croccante, cenere, spezia sottile) e completare il quadro con un palato molto piacevole ed appagante, acido ma non invasivo, già nel pieno equilibrio, figlio di un’interpretazione tale da renderlo ben fruibile sin da subito; un vino che denota lo stile esecutivo proprio della scuola di provenienza dell’enologo aziendale, quella del professore Moio, il massimo studioso ed esperto del vitigno Aglianico.
La full immersion nella realtà irpina è proseguita con un menù incentrato su materie prime della zona di Paternopoli, con un’unica, folgorante eccezione: lo zafferano prodotto fra Calitri e Lacedonia da Germana, donna minuta ed energica, originaria della Carni, ma trapiantata per amore in Irpinia.
Germana ha illustrato con ricchezza di particolari il suo avventuroso rapporto con questa essenza floreale che fornisce i preziosissimi pistilli, capaci di rendere indimenticabile qualsiasi pietanza. Un lavoro estremamente impegnativo in quanto richiede una lavorazione del tutto manuale ed accortissima nel momento della fioritura.
Da 16.000 a 18.000 fiori per produrre un etto di zafferano, da raccogliere tutti velocemente con la schiena piegata. Ecco giustificato il costo dello zafferano e per ora Germana riesce a realizzarne un etto all’anno.
Tutti abbiamo percepito ed apprezzato la passione che l’ha portata ad ottenere, per il suo “zafferano irpino Lacedonia”, il massimo riconoscimento qualitativo dall’apposito ente ministeriale, gustando poi le preparazioni culinarie che hanno reso il giusto omaggio ad una zona fra le più belle ed incontaminate della nostra regione.
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