E’ mancato qualche giorno fa, a Gallipoli, Carlo Coppola, una grande figura della viticoltura salentina e italiana. Aveva 85 anni.
Grande conoscenza del settore e del territorio. Gentilezza e verve polemica – sempre educata e gentile – non sterilmente critica ma costruttiva. Forse è una delle accezioni della saggezza, almeno di quella enoica. Questa saggezza è stata personificata da Carlo Coppola, memoria storica del Salento vitivinicolo, scomparso qualche giorno fa. Aveva 85 anni. Diplomato nel 1948 in agronomia ed enotecnica in quella che allora era la massima istituzione scientifica in questo campo, ossia la Scuola Enologica Umberto I di Alba, si è sempre dedicato alla vitivinicoltura nell’azienda di famiglia, ma ha curato varie pubblicazioni, ha steso il disciplinare della Doc Alezio, e assolto a molteplici incarichi istituzionali, tra cui quello di componente della Commissione di assaggio di secondo grado presso il Ministero dell’Agricoltura.
Per comprendere meglio la sua levatura umana, ecco qualche stralcio di interviste concesse negli ultimi anni:
“Tengo fede a ciò che mi consigliò mio padre: se vedi che le cose vanno bene non allargarti per trasformarti in commerciante, altrimenti perdi tutta la tradizione che ho cercato di costruire. C’è una nobiltà profonda nell’essere viticoltori, o vignaiuoli, come diceva Veronelli, utilizzando un termine desueto ma poetico e pregnante”.
Ci racconta qualcosa della sua amicizia con Luigi Veronelli?
Veronelli, maestro della critica enogastronomica, venne a trovarci più volte negli anni Settanta. Me lo ricordo ancora, pantaloni corti e camicia a fiori, grande cultura e conoscenza dei vini e della vitivinicoltura. Organizzavamo concorsi di cucina e degustazioni, che lui conduceva, con grande interesse dei turisti. Si innamorò dei nostri vini, di Gallipoli e del suo mare. Invitato da lui, andai prima a Milano e poi nella sua casa di Bergamo Alta, partecipai a riunioni con i migliori vignaioli di ogni regione italiana (ricordo tra gli altri il friulano Paolo Rapuzzi, il valdostano Enzo Voyat, il piemontese Giacomo Bologna, Armando Botteon, esperto in legislazione vitivinicola), in particolare per studiare delle proposte per superare le carenze delle normative dell’allora Comunità Economica Europea in merito ai vini di qualità che non rientravano ancora nelle Doc. Insisteva con ragione sulla teoria dei cru, cioè della valorizzazione dei territori altamente vocati alla coltivazione di un determinato vitigno, teoria e pratica ancora valide. Ho seguito le sue indicazioni, che erano anche le indicazioni di mio padre Niccolò: non abbandonare i vigneti, vinificare le proprie uve, possibilmente secondo il vigneto di provenienza.
Le interviste
Incontro con Carlo Coppola, decano dell’enologia salentina
ROSATO, TERRITORIO, SALENTO
Grande conoscenza del settore e del territorio. Gentilezza e verve polemica non sterilmente critica ma costruttiva. Forse è una delle accezioni della saggezza, almeno di quella enoica. Questa saggezza è personificata da Carlo Coppola, memoria storica del Salento vitivinicolo. Quasi ottantaquattro anni, diplomato nel 1948 in agronomia ed enotecnica in quella che allora era la massima istituzione scientifica in questo campo, ossia la Scuola Enologica Umberto I di Alba, da allora si è sempre dedicato alla vitivinicoltura nell’azienda di famiglia, ma ha curato varie pubblicazioni, ha steso il disciplinare della Doc Alezio, e assolto a molteplici incarichi istituzionali, tra cui quello di componente della Commissione di assaggio di secondo grado presso il Ministero dell’Agricoltura. Lo incontriamo a Gallipoli, in una luminosa giornata di blu e azzurri tra mare e cielo.
Lei sostiene che il Concorso dei Vini Rosati d’Italia dovrebbe avere altre caratteristiche per valorizzare al meglio la produzione salentina.
Noi salentini abbiamo sempre creduto nel Rosato, ho l’impressione che questo concorso ci tolga questo orgoglio e tolga la priorità del Negroamaro quale uva migliore per la produzione di questa tipologia di vinificazione. Mi auguro che gli organizzatori possano recepire questa riflessione e abbiano l’accortezza di mutare l’impostazione del concorso. Qualche degustatore ha sostenuto che i Rosato da uve Montepulciano, o da Aglianico o da Sangiovese sono migliori, e magari solo perché hanno dei profumi più ruffiani. Io dico che i Rosati da Negroamaro posseggono un colore proprio, il celebre riflesso rosa corallo, una lunghezza, un corpo, una complessità individuabile insuperabile. I Rosati da altri vitigni non hanno queste prerogative. E soprattutto dobbiamo tenere presente l’interrelazione fondamentale esistente tra Negroamaro e il territorio salentino. Il nostro compito non è mettere a confronto i Rosati d’Italia, ma convincere, spiegando le valide ragioni, perché il nostro Rosato è inimitabile. Se qualche degustatore, convinto che il Nebbiolo sia la miglior uva per gli spumanti, andasse dai vigneron della Champagne a proporlo chiedendo di spiantare i vigneti di Chardonnay e Pinot nero, con cui hanno sempre prodotto il loro grande vino, verrebbe immediatamente preso per provocatore.
Ma perché controproducente?
Credo che l’impegno di un amministratore regionale sia valorizzare la produzione locale, non istituire un concorso nazionale con vini provenienti da tutt’Italia. È come se un assessore piemontese istituisse un concorso nazionale dei vini da uve Nebbiolo. I vignaioli delle zone vocate del Barolo e del Barbaresco protesterebbero senz’altro. Proviamo a pensare anche a quale sarebbe la reazione dei produttori del Prosecco in Veneto se il loro assessore proponesse un concorso italiano dei vini spumanti invece di spingere la produzione regionale.
Problemi analoghi nascono anche in altri settori dell’agricoltura?
Purtroppo sì, si passa dalla viticoltura al mais, dal frumento alle mele, senza rivendicare e valorizzare le vocazionalità colturali. A Bordeaux o in Borgogna nessuno si sognerebbe di imporre la coltura del mais, ci sarebbe delle immediate rivolte. Certo, si devono lasciare aperte le porte della sperimentazione, ma con giudizio e ponderazione. Anch’io ho deciso di piantare un vigneto di Vermentino, un’uva sconosciuta nel nostro territorio, ma l’ho fatto dopo studi del terreno, del clima, dell’adattabilità di questa cultivar. Credo sia giunto il momento per definire quali sono le vocazioni colturali, culturali ed economiche del territorio ed essere conseguenti senza cedere a imposizioni o a mode effimere. E forse l’istituzione della Regione Salento potrebbe essere una strada per arrivare a questo risultato, come già nel secondo dopoguerra mio padre Niccolò sosteneva dalle pagine del mensile La Torre.
In provincia di Lecce si è passati da 63mila ettari coltivati a vite agli attuali 12mila. Una tragedia! Alcuni hanno tolto i vigneti per piantare ortaggi. Sono convinto che l’agricoltura non debba essere monocolturale, ma se un territorio è vocato alla produzione di uva da vino bisogna fare il possibile per continuare questa tradizione. Le responsabilità di questa situazione vanno ripartite tra direttive comunitarie, scelte nazionali e regionali, ma anche tra gli imprenditori e vitivinicoltori locali.
Lo stesso sbaglio è stato fatto con l’allevamento. Da 130mila pecore si è passati a 30mila, sovvenzionando invece delle stalle per l’allevamento bovino che sono fallite in pochi anni e che ora sono delle cattedrali nel deserto. Eppure non sarebbe stato difficile notare che il nostro territorio è naturalmente adatto agli ovini e storicamente questo è l’allevamento tradizionale.
Tornando al vino, non teme l’omologazione dei gusti?
Per fare in modo che i vini prodotti da uve differenti e in differenti territori non si assomiglino, bisognerebbe mettere in discussione l’uso dei lieviti selezionati. Ho l’orgoglio di aver assistito, negli anni scolastici, ai seminari di Tommaso Castelli, scienziato di fama che aveva individuato il bacterio cerevisae, su cui si basa questa tecnica. L’uva non ha bisogno di lieviti aggiunti, li contiene naturalmente. Ripeto, non sono contro le novità, la tecnica e la scienza, anzi! Dipende se servono per migliorare o meno un prodotto. Ma se il risultato dell’uso smodato dei lieviti selezionati è che i vini si assomigliano, allora è necessario mettersi in discussione. Purtroppo prima si vinificavano le uve, ora invece si fabbrica il vino, come si fabbrica qualsiasi bevanda seriale. Oramai certi vini mi ricordano le nefaste damigiane di Albana aromatizzate alla banana e alla fragola, che negli anni ’60 invasero l’Italia!
Ritorniamo alla questione dell’omologazione dei vini, ma rimaniamo negli anni ’60: mio padre Niccolò sosteneva la nascita di una Doc Salento con la specificazione delle zone vocate, chiamate “Sottozone” negli attuali disciplinari, nome che però non comunica superiorità, ma inferiorità. Basterebbe utilizzare la parola cru, ormai divenuta internazionale, come proponeva Veronelli. Speriamo sia la strada intrapresa con la nuova Doc Terra d’Otranto.
Ci racconta qualcosa della sua amicizia con Luigi Veronelli?
Veronelli, maestro della critica enogastronomica, venne a trovarci più volte negli anni Settanta. Me lo ricordo ancora, pantaloni corti e camicia a fiori, grande cultura e conoscenza dei vini e della vitivinicoltura. Organizzavamo concorsi di cucina e degustazioni, che lui conduceva, con grande interesse dei turisti. Si innamorò dei nostri vini, di Gallipoli e del suo mare. Invitato da lui, andai prima a Milano e poi nella sua casa di Bergamo Alta, partecipai a riunioni con i migliori vignaioli di ogni regione italiana (ricordo tra gli altri il friulano Paolo Rapuzzi, il valdostano Enzo Voyat, il piemontese Giacomo Bologna, Armando Botteon, esperto in legislazione vitivinicola), in particolare per studiare delle proposte per superare le carenze delle normative dell’allora Comunità Economica Europea in merito ai vini di qualità che non rientravano ancora nelle Doc. Insisteva con ragione sulla teoria dei cru, cioè della valorizzazione dei territori altamente vocati alla coltivazione di un determinato vitigno, teoria e pratica ancora valide. Ho seguito le sue indicazioni, che erano anche le indicazioni di mio padre Niccolò: non abbandonare i vigneti, vinificare le proprie uve, possibilmente secondo il vigneto di provenienza.
Il racconto di una terra
Cantina Coppola
Incontro con Carlo Coppola, memoria storica di un’azienda nata nel 1489 a Gallipoli.
Essenziale, telegrafico, poetico, vero: “I vini contadini, migliori. Piccolo il podere, minuta la vigna, perfetto il vino”, è l’incipit del Catalogo Bolaffi dei Vini d’Italia. Il Gotha dei Vini di Luigi Veronelli. Erano i primi anni ’70, non era apparsa ancora in libreria nessuna delle guide ai vini che oggi conosciamo e Luigi Veronelli era già il maestro riconosciuto della critica enogastronomica intelligente. In quel Catalogo, Veronelli segnala con lode due vini della Cantina Coppola di Gallipoli. Sono passati oltre quarant’anni da quelle recensioni, ma i vigneti dei Coppola sono rimasti gli stessi, dei veri e propri cru, tanto da ripetere: “piccolo il podere, minuta la vigna, perfetto il vino”. I cru, termine francese con cui si designa i vigneti altamente vocati, sono tracciabili anche storicamente, infatti, documenti d’archivio attestano che la nobildonna Laura Cuti – sposando nel 1489 Orsino Coppola – portò in dote la tenuta Li Cuti, oggi come allora coltivata a vigna e ancora di proprietà della famiglia Coppola.
“Con Gino Veronelli l’amicizia è iniziata alla fine degli anni ’60, quando girava l’Italia per assaggiare i vini da recensire sul Catalogo Bolaffi e nelle trasmissioni televisive, come la famosissima A Tavola alle 7, condotta assieme a Ave Ninchi. Fu entusiasta del Doxi, del Rosato Lacrima di Terra d’Otranto (in un dossier pubblicato su Il Mondo lo inserì tra i migliori 100 vini del Sud) e del Rosso, che nel 1983 è diventato Li Cuti Rosso, dopo l’assegnazione della Doc Alezio. Gino scrisse delle descrizioni organolettiche molto pignole e belle, che hanno costituito un codice per le successive degustazioni”.
Così inizia l’incontro con Carlo Antonio Coppola, memoria storica della Cantina Coppola e padre di Giuseppe e Lucio, attuali proprietari dell’azienda. Ottantatré anni, diplomato nel 1948 in agronomia ed enotecnica in quella che allora era la massima istituzione scientifica in questo campo, ossia la Scuola Enologica Umberto I di Alba, da allora – oltre a varie pubblicazioni e a molteplici incarichi istituzionali – si è sempre dedicato ai due rami imprenditoriali di famiglia: la vitivinicoltura e l’ospitalità (il primo agricampeggio del Salento è stato creato dalla famiglia Coppola, oggi è La Masseria Camping*). Durante il nostro incontro, il discorso è saltato da un secolo all’altro. Dal 1400, quando Orsino Coppola si stabilì in Salento, al 1800, quando l’ingegner Giovanni Coppola fondò Spartaco, un notevole settimanale di cultura, politica ed economia; dal 1600, secolo in cui operò Giovanni Andrea Coppola, pittore di gran fama, al ‘900 caratterizzato dalla genialità eclettica dell’ingegner Niccolò Coppola; agli anni Settanta, segnati dall’amicizia con Luigi Veronelli, fino ai nostri giorni con la conduzione aziendale del figlio Giuseppe e la collaborazione di Giuseppe Pizzolante Leuzzi, enologo. Un’intervista che è diventata incrocio di microcosmi, memorie storiche, ricordi personali e di notizie di cultura enologica di grande interesse. Ci vorrebbe un libro intero. Impossibile riassumerne la complessità, ci concentriamo per ora sulle considerazioni e memorie enologiche. Ascoltiamo il suo racconto.
“Con Veronelli abbiamo passato giorni indimenticabili, venne a trovarci molte volte, e durante qualche estate degli anni Settanta, passò con noi anche un mese intero. Me lo ricordo ancora, pantaloni corti e camicia a fiori, grande cultura e conoscenza dei vini e della vitivinicoltura. Organizzavamo concorsi di cucina e degustazioni, che lui conduceva, con grande interesse dei turisti. Si innamorò dei nostri vini, di Gallipoli e del suo mare. Invitato da lui, andai prima a Milano e poi nella sua casa di Bergamo Alta, partecipai a riunioni con i migliori vignaioli di ogni regione italiana (ricordo tra gli altri il friulano Paolo Rapuzzi, il valdostano Enzo Voyat, Armando Botteon, esperto in legislazione vitivinicola), in particolare per studiare delle proposte per superare le carenze delle normative CEE in merito ai vini di qualità che non rientravano ancora nelle Doc. Insisteva con ragione sulla teoria dei cru, cioè della valorizzazione dei territori altamente vocati alla coltivazione di un determinato vitigno, teoria e pratica ancora valide. Noi abbiamo seguito le sue indicazioni, che erano anche le indicazioni di mio padre Niccolò: non abbandonare i vigneti, vinificare le proprie uve, possibilmente secondo il vigneto di provenienza”.
“La Cantina Coppola iniziò a imbottigliare nel 1948, nell’agosto di quell’anno mi diplomai, e a fine anno imbottigliammo il rosato Lacrima di Terra d’Otranto. Attualmente curiamo 17 ettari di vigneto. Tre sono i cru di provenienza: Li Cuti, Patitari e Santo Stefano, che rientrano nel territorio della Doc Alezio, comprendente i comuni di Gallipoli, Sannicola, Tuglie, Alezio. Le uve rosse sono le classiche di questo territorio: Negroamaro e Primitivo, affiancate da due varietà bianche scelte dopo attenti studi: Vermentino e Sauvignon. Tengo fede a ciò che mi consigliò mio padre: se vedi che le cose vanno bene non allargarti per trasformarti in commerciante, altrimenti perdi tutta la tradizione che ho cercato di costruire. C’è una nobiltà profonda nell’essere viticoltori, o vignaiuoli, come diceva Veronelli, utilizzando un termine desueto ma poetico e pregnante”.
“I miei figli Giuseppe e Lucio, che ora conducono l’azienda, rappresentano la diciottesima generazione familiare di vignaioli. Personalmente sono stato l’estensore del disciplinare della Doc Alezio, per documentarmi sulla storia enologica di questo territorio feci delle ricerche e scoprii che furono, con molta probabilità, i monaci basiliani (celebri per la loro perizia in agricoltura) a portare i primi sarmenti, esattamente dalla Turchia, terra da cui erano probabilmente fuggiti a causa della dominazione bizantina che esigeva l’iconoclastia. La chiesetta di San Mauro fu una florida abbazia basiliana attorno al Mille e si trova non distante dai nostri vigneti.
Il territorio dall’arco ionico-gallipolino è una parte del Salento molto particolare per il microclima, molto ventoso, siccitoso, dove l’influenza benefica del mare dona specificità ai prodotti della terra e in particolare alle uve e in conseguenza al vino. Questo non è il ‘solito’ Salento, ma un Salento nel Salento, dove gli aspetti positivi del clima e del terreno sono, se non migliori, diversi”.
“Nell’ambito della viticoltura abbiamo apportato delle novità significative, in particolare – con la collaborazione di due studiosi del calibro di Antonio Calò e Angelo Costacurta – la selezione e la valorizzazione del Negroamaro Cannellino, un clone dal grappolo non compatto che impedisce la formazione dei marciumi durante la maturazione e che ha una quindicina di giorni di anticipo sulla maturazione, anticipando un periodo solitamente critico in Salento; la sperimentazione e la valorizzazione del Vermentino, che qui, nell’arco ionico-gallipolino, assieme al Sauvignon, trova terreni e microclima favorevoli come nessuna delle varietà bianche finora sperimentate.
Un’intuizione mi venne dal ricordo dei vigneti di Châteauneuf-du-Pape, nella zona del basso-Rodano in Francia, che visitai nel ’52, caratterizzati da un terreno molto ciottoloso. L’idea fu di far scassare con un macchinario la roccia affiorante di tre ettari del vigneto Santo Stefano, rendendo la roccia (che lì è di uno spessore di circa 60 centimetri) in ciottoli e permettendo alle viti di arrivare alla terra argillosa sottostante. Gli aspetti positivi di questo lavoro si possono notare in giugno, in quel periodo le viti lì piantate sono più verdi rispetto all’altra parte del vigneto, soffrono di meno il caldo e la siccità, grazie alla protezione dei ciottoli e la penetrazione in profondità nel terreno”.
“Penso che l’azienda Coppola abbia contribuito alla conservazione e alla valorizzazione di questo territorio, sia con la viticoltura sia con la preservazione e l’ampliamento di zone boschive di una parte della costa ionica, zone naturalistiche dove gestiamo l’agro-camping. Ma anche con il primo restauro in Salento di un frantoio ipogeo, nel centro storico di Gallipoli, e con la sua valorizzazione culturale e turistica. Un progetto realizzato in collaborazione con l’associazione Galllipoli Nostra. È diventato un esempio per altre località salentine. Dare profondità storica nell’ambito della cultura dell’olio è importantissimo in Salento e soprattutto a Gallipoli, che nel ‘700 fu la piazza dove si decideva il prezzo internazionale dell’olio e il porto da dove partivano le navi dirette in tutta Europa. Mi piacerebbe vedere inaugurato al più presto il Museo Coppola, dedicato a Giovanni Andrea Coppola, dove saranno esposte anche le ventidue tele donate dalla nostra famiglia. Vorrei infine evidenziare la conduzione familiare della nostra azienda agricola e turistica, in cui io e i miei figli siamo affiancati da mia moglie Maria, onnipresente e operosa, dalla scrupolosa e puntuale Paola – moglie di Lucio – che conduce l’ufficio di direzione, da Annarita – moglie di Giuseppe – essenziale durante gli incontri, i convegni e le degustazioni, e da Nicolò, giovanissimo nipote, che si affaccia nella conduzione agronomica”.
“Ho cercato di raccontare la storia enoica della nostra famiglia e il contributo che ho dato nella storia recente, invece il racconto dei vini in produzione oggi lo lascio fare a miei figli e all’ottimo enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi. Dei nostri vini posso dire che parlano della nostra terra e della nostra storia”. Interrompiamo il dottor Coppola per ricordargli che Veronelli usava proprio questa definizione per i vini dell’azienda. E lui conclude: “Avendolo conosciuto bene, penso che se fosse in vita lo farebbe ancora. Ed è per me il miglior complimento”. “Via via scendendo fino a Capo di Leuca. Lì comincia la Magna Grecia. A sud del Sud…”, così scriveva del Salento il grande Carmelo Bene. Questo sud del Sud ci dona da millenni e ancora oggi grandi narrazioni e grandi vini.
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