di Rosario Scarpato
Le “mezze maniche con calamarata 1926” arrivano proprio quando inizia lo spettacolo. L’imponente fontana danzante di Dubai si accende con un milione di luci, spruzzi d’acqua alti 150 metri al ritmo di Con te partirò di Bocelli. Centinaia di turisti accalcati a guardare. Ma qui sulla terrazza di Bice Mare, il ristorante di pesce (ma non solo) che affaccia proprio sul laghetto della Burji Khalifa, la torre più alta del mondo, l’attenzione è tutta per la pasta. Per il suo squisito sughetto con sette tipi di pesce e frutti di mare, tutti al giusto punto di cottura. 1926? “E’ l’anno di fondazione della SSC Napoli”, spiega il cameriere”.
E questo già dice moltissimo del cuoco che è dietro la calamarata e le decine di piatti che hanno fatto la fortuna di Bice Mare. Grande cucina italiana, quella con la testa sulle spalle, di qualità, tradizionale, quella che vogliono gli stranieri. Lo chef è Francesco Guarracino, 36 anni, da Sant’Agata sui due golfi: Forza Napoli “a prescindere”, come diceva Totò, e poi tutto il resto.
Niente triti folclorismi però: in due anni a Dubai, Francesco non solo ha fatto di Bice Mare un locale di successo ma ha anche stabilito un record unico per la cucina italiana fuori dall’Italia. Bice Mare è il ristorante con il più alto numero di cuochi italiani (espatriati) al mondo. Ne ha ben dieci. E sono il frutto di una scelta precisa, “anglosassone”, dello chef Guarracino: i fornelli di Bice sono un’accademia, dove giovani cuochi italiani vengono a fare un periodo d’intensa esperienza, preziosissimo per la loro carriera. Perché dieci? “Perché è il numero della fortuna, il Dieci magico”, dice riferendosi a Maradona, idolo calcistico della sua infanzia, che adesso abita a Dubai e mangia anche da Francesco. “Dopo averli chiesti mi resi conto che dieci cuochi dall’Italia erano tanti, ma ormai era fatta”.
Non c’è spazio per i mercenari, come li chiama lui. “Ricevo tremila curriculum. Non posso rispondere a tutti ma prendo quelli che meritano”. I meritevoli sono quelli che sposano il progetto e la filosofia di Francesco: “Cucinare è regalare ogni volta qualcosa di unico ai clienti”, “Le mani dei miei cuochi devono essere le mie mani”, “Il giorno di riposo da noi si chiama giorno di dolore, perché siamo costretti a stare lontani dal nostro lavoro, il nostro piacere, e perché se non possiamo farlo, il riposo, nessuno soffre”. E non è finita. Ancora un precetto: “Il modello sono le nostre nonne italiane, maestre dei loro piatti che hanno cucinato per 35-40 anni almeno una volta alla settimana”. E un omaggio speciale alle nonne è la saporita zuppa di lenticchie, decorata con un quarto di carciofo cotto al vapore con al centro trucioletti di tartufo nero. Tradizione, grande qualità degli ingredienti, tecnica e presentazioni contemporanee. La ricetta vincente di Francesco Guarracino la cui storia unica ben rappresenta quella dei tanti giovani talenti culinari che l’Italia, e Napoli e la Campania, stanno dando al mondo.
Meticoloso, stakanovista, grande organizzatore, Francesco deve ai suoi anni in Inghilterra la sua parte nordica. Ha lavorato prima nella catena Piccolino, 22 ristoranti, e poi è stato Executive Chef dei ristoranti del gruppo San Carlo, compresi Cicchetti e Signor Sassi, a stretto contatto con l’esuberante fondatore Carlo Distefano. “In Inghilterra ho appresso l’importanza della disciplina, ma io sono napoletano, la disciplina da sola non basta, per questo sono venuto a Dubai”.
Francesco è figlio d’arte. Suo padre, Luigi, cuoco anche lui, ha lavorato con Alfonso Iaccarino al Don Alfonso 1890 quando arrivarono la prima e la seconda stella Michelin. Anche il nonno era cuoco, allo Zio Sam, sulle colline di Sant’Agnello. “Papà non voleva che facessi il cuoco”, ricorda Francesco, “diceva che questo mestiere non ti consente di vivere la famiglia, i figli li allevi ma non li conosci”. Ma Luigi non sapeva di essere già il supereroe di suo figlio (“non dimenticherò mai l’odore di frittura della sua maglietta quando tornava a casa”), il destino di Francesco era segnato. Poco più che bambino era già alla Taverna del pescatore a Massalubrense. “A casa dicevo che facevo il cameriere, sporcavo la camicia con maionese e pomodoro. La giacca me la lavava di nascosto un amico”.
La cucina, anche per il bambino più sognatore, può essere un trauma. “Il primo mese piangevo ogni giorno.15 o 20 minuti, prima di tornare a casa”. Nemmeno questo trauma lo dissuase però dall’essere cuoco. Andò a scuola, fece le esperienze locali (al Caruso di Sorrento, al don Alfonso, alla Taverna del Capitano a Nerano, al Quisisana di Capri) e poi all’estero. “Oggi sono contento, faccio il lavoro più bello del mondo”. “E faccio cucina italiana, per questo ho voluto che i miei cuochi venissero da tutta Italia”. E la napoletanità? “A volte cerco di reprimerla. Ma come si fa? La mia bagna cauda avrà sempre un tocco di napoletanità. Durante il rapido e furioso servizio della cena dimentico spesso l’italiano e parlo napoletano. E sai che? Dopo un poco in cucina parlano tutti in napoletano”.
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