di Paola Riccio
L’Antefatto
Marina Mercaldo e Giovanni Serritelli sono due persone speciali che hanno dedicato parte della loro vita allo studio della cucina antica. Studiando i trattati di cucina hanno ripercorso attraverso le parole dei cuochi che viaggiavano fra le corti internazionali, come dei grandi artisti, la storia gli usi e i costumi di epoche e regni e delle diversi, dedicando un’attenzione particolare al secolo dei lumi: il ‘700.
L’autunno scorso mi sono ritrovata per puro caso nel loro ristorante “IL Cuoco Galante” a via Broggia a Napoli, che prende il nome proprio dal trattato di gastronomia, blockbuster dell’epoca, del letterato nonché grande cuoco conteso dalle corti internazionali, Vincenzo Corrado, a cui Giovanni massimamente si ispira nelle sue proposte, e dopo l’Aperol sour al succo di limone, questa volta proposto della cosmopolita Marina, è scattato il colpo di fulmine che è sfociato in un’ intensa collaborazione fra le nostre attività.
Dato il mio forte coinvolgimento, ho segnalato all’editore di questo blog il loro programma “7 Secoli in Cucina”, una rassegna di cene storiche dedicate ai vari secoli, già avviata con la cena medioevale aragonese, nello scorso mese di dicembre 2014 , che vede il momento culminante nelle cene spettacolo dedicate al 700, il secolo dei lumi ma anche secolo d’oro per il regno di Napoli, grazie al dispotismo illuminato del Regno dei Borbone e il secolo dei Monsù che tutte le corti europee si contendevano.
La prima di queste serate è stata quella del 16 Gennaio, replicata il 17 Gennaio che ha avuto come tema speciale il Don Giovanni; a queste ne seguiranno altre due, una nel mese di febbraio e una a marzo che avranno come tema rispettivamente “Le Relazioni Pericolose” e “Casanova a Napoli”, per poi scivolare sulla tavola dell’ottocento con il Gattopardo (vedere il programma dettagliato).
L’editore di questo blog, in risposta alla mia segnalazione, mi ha invitata a inviargli un racconto della serata e quindi eccomi in veste di cronista stupefatta di tanta magnificenza.
Cronaca
Alle 21,00 del 17 Gennaio 2015, varcata la soglia della chiesa sconsacrata, in via Santa Chiara a Napoli, come in un viaggio nel tempo, mi sono ritrovata catapultata in un’altra epoca, per riviverne il sapore magnifico grazie all’accurata ambientazione: il tavolo unico per tutti i commensali, l’illuminazione quasi esclusiva delle candele, i camerieri in livrea, la scenografia consistente in due quinte rappresentanti due figure a tutta altezza in abiti settecenteschi, e la musica di Mozart dal cui Don Giovanni sono state eseguite le più celebri arie, grazie ai musicisti Nataliya Apolenskaya, Massimiliano Giordano Orsini, Maurizio Esposito, Ferdinando Pirone e Gennaro Benvenuto.
Il nostro Anfitrione, Giovanni Serritelli, in costume storico, ci ha introdotto e accompagnato in questo viaggio descrivendoci gli usi e i costumi di quelle corti aristocratiche dove lo scopo del banchetto era l’ostentazione della ricchezza e della potenza della famiglia che lo offriva, e dove, quindi, il cibo assumeva una funzione preminentemente decorativa superando quella nutritiva. Un’epoca in cui era possibile, per soddisfare il capriccio di un signore, che in pochi giorni un salmone pescato in Scozia arrivasse in una cucina partenopea, mantenuto in vita ponendo dell’ovatta imbevuta di acquavite nelle branchie; una cosa impensabile ai nostri tempi! Un’epoca dove, sulle tavole dei nobili, l’uso delle spezie, del grasso e dello zucchero era il motivo conduttore, proprio per la rarità è preziosità di questi ingredienti. In questa riproduzione del contesto l’unica eccezione che, per motivo di tempo e di spazio, il banchetto ha avuto rispetto all’uso settecentesco è stata nel servizio, che invece dei canonici quattro, in cui tutte le portate venivano poste contemporaneamente sul tavolo -servizio alla francese, ha visto una sequenza di portate all’uso contemporaneo -servizio cosiddetto alla russa che soppiantò quello alla francese; in pratica nel 700, veniva imbandito una sorta di buffet con posti a sedere, e di questi buffet, ovvero servizi, ne venivano proposti quattro; è stata invece rispettata l’abitudine di servirsi da soli dai piatti di portata come nel servizio alla francese.
Le pietanze servite:
Potaggio di verdure alla crema di ceci, l’unica pietanza servita ai singoli commensali e sorbita con l’ausilio del cucchiaio, anche qui con licenza all’uso settecentesco, in cui il cibo liquido veniva sorbito direttamente dal piatto.
Timpallo alla dama, una sorta di palla di riso cotta nel latte e poi ripassata nel grasso con un condimento molto ricco fatto con fondi di cottura e l’uso abbondante di frutta secca.
Arrosto di vitello farsito, un piatto anch’esso molto ricco con una farcitura di carne trita e cotto in crosta di zucchero di canna con abbondante (e per me delizioso )uso di canditi
Sortù all’inglese, e qui il cuoco Serritelli ci ha spiegato che la parola Sortù, corrotta in Sartù deriva dal francese SUR TOUT a indicare la pietanza più importante, più decorata e più bella di tutte (ricordiamo la funzione ornamentale e decorativa del cibo) e veniva servita su un piatto posto su una struttura alta, di forma conica o cilindrica, ovvero un trionfo, oggi diremmo un’alzata; da qui, letteralmente, Sur Tout.
Solo successivamente nell’uso partenopeo il Sartù è andato ad indicare quello di riso, potendo all’epoca essere una pietanza variamente elaborata. Nel caso della Cena, a cui abbiamo assistito, si è trattato di una preparazione a base di ricotta, prosciutto e provola, l’unica di gusto prevalentemente salato della serata.
e infine la torta palermitana, l’antesignana di quella odiernamente nota come Cassata Siciliana.
Nel ‘700 non avendo importanza la distinzione fra salato e dolce, poteva capitare che in una servizio venissero contrapposte pietanze dal gusto prevalentemente dolce ad altre salate, senza nessuna regola.
Dato , però , l’uso abbondante di zucchero, e canditi , il senso del dolce era prevalente, e non solo in quelle pietanza che costituirebbero per noi il fine pasto, e questa concezione ,particolarmente congeniale al mio gusto, è risultata spiazzante per molti commensali.
Anche i vini hanno rispettato l’ambientazione settecentesca; infatti dalla proposta dell’azienda vinicola Alepa, in Caiazzo (CE), sono stati scelti due vini prodotti dal Pallagrello, il vitigno autoctono della provincia di Caserta, oggi elettivamente allevato sulle colline caiatine, tanto caro ai Borbone al punto da farlo assurgere a vino dei banchetti ufficiali di corte.
Con la pietanza di verdure è stato servito il Riccio Bianco – igt Terre del Volturno Pallagrello Bianco 2011, e a seguire è stato servito il suo gemello Riccio Nero – igt Terre del Volturno Pallagrello Nero 2009.
Per descrivere i vini prenderò in prestito le parole degli amici sommelier:
Andrea Gori per Riccio Bianco ha scritto: tè all’arancio, ginestra, pepe bianco , talco , menta confetto e senape, bocca lunga e carnosa di albicocca e zafferano, ipnotico, originale, rotondo e ricchissimo.
Invece Salvatore Landolfo ha scritto per il Riccio Nero: vino elegante nonostante la bassa filtrazione e dal colore cupo che invita al secondo e anche al terzo sorso, pieno di nerbo sia al naso con note fruttate, floreali e anche speziate che in bocca per la buona spalla acida.
A queste accattivanti definizioni mi sento solo di aggiungere che quando dei vini fuori dagli schemi trovano degli esecutori di piatti originali, come il cuoco Giovanni Serritelli, il connubio non puo’ che essere perfetto e questo banchetto lo ha dimostrato.
Infine è stato servito l’ Ippocrasso, una evoluzione della antica bevanda Ippocratica, ovvero un vino aromatizzato con spezie e addolcito all’uso ereditato dalla scuola medica salernitana, una preparazione di Giovanni Serritelli, che ha fatto sua la ricetta in uso presso la Corte di Madrid.
Il ritmo del banchetto è stato scandito dalle arie del Don Giovanni, e soprattutto dalle interessantissime e preziosissime precisazioni filologiche del padrone di casa, come intermezzo, e a introduzione di ogni pietanza. I suoi aneddoti e le sue spiegazioni sono il frutto di anni e anni di studio e sono il vero valore aggiunto di una serata come questa, al di là della sperimentazione di sapori a cui non siamo avvezzi.
Ma un particolare plauso va a Marina, il motore occulto di questa serata, che ha il merito di aver fatto funzionare tutto alla perfezione, pur dovendo confrontarsi con le evidenti difficoltà logistiche dettate da un ambiente tanto suggestivo, come quello prescelto per questa messa in scena, ma tanto poco adatto alle esigenze della ristorazione.
Infine consiglio a tutti di vivere di persona una serata come questa che è scivolata via con leggerezza lasciando un bellissimo sapore fisico e metafisico di un tempo in cui l’impossibile non esisteva, e l’invito è a non perdere i prossimi appuntamenti della rassegna, ma soprattutto l’invito è a sperimentare i racconti di Giovanni, anche presso il loro ristorante il Cuoco Galante, dove tutte le sere si puo’ ripetere la magia.
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