È sempre un piacere quando si beve un vino di Moio, e il Grande Cerzito 2001 è forse la summa della sua visione enologica. Non parliamo solo di un aglianico in purezza, di più, della purezza di un Taurasi ottenuto da un cru coltivato con passione, i cui chicchi sono stati analizzati e privati degli acini a uno a uno con precisione chirurgica. Trattato così l’Aglianico si conferma di essere un grande rosso perché, come tutti i top wine, non migliora solo con il tempo ma è buono da bere nel momento in ci si mette in commercio.
Quante volte abbiamo letto o scritto parlando di un Taurasi che fosse necessario aspettare molti anni, a volte anche un decennio? E quante volte ci siamo sentiti domandare, perché aspettare tanto tempo, allora conviene comprare altro? Bene la risposta a questo annoso problema, come pure al tema verso secondo il quale le grandi bottiglie devono essere sempre pronte allo stappo, è nel Grande Cerzito, uno dei due cru prodotti dall’azienda del professore Moio che di recente ha acquisito un’altra azienda nell’areale di Tufo completando così il progetto di produrre vini esclusivamente da uve proprie.
La finezza del naso in cui frutto e legno sono perfettamente fusi si coniuga alla freschezza del palato, una acidità ben diversa dalla quale siamo abituati con i Taurasi perché non è scissa, ma sostiene tutta la beva dall’inizio alla fine rinfrescando il palato, tonificandolo, senza però imporsi sulla frutta. Ne scaturisce allora un sorso equilibrato, piacevole, lungo, di buona complessità. Un vino che sta bene sui piatti strutturati e che sarà sicuramente molto interessante scoprire nei prossimi anni. Frutto di un’annata calda, la 2011, il Grande Cerzito si manifesta con vivacità e grande capacità di distendesi piacevolmente in bocca. Un grande vino, un rosso dalle grandi occasioni.
Scheda del 2 agosto 2017. Vi confesso che sono stato indeciso sino all’ultimo sulla direzione da dare a questo post. Il primo impulso era quello di raccontarvi la bellezza di questo vino ottenuto da Luigi Moio da una vigna di aglianico di fronte al corpo principale di Quintodecimo, su come i fatti gli abbiano dato ragione nel corso degli anni, esprimervi la sua eccezionale capacità di affrontare il problema dei tannini nell’aglianico senza seppellirlo in un bara di legno. Vi avrei anche raccontato della giovinezza di questo vino, della sua energia al palato e la purezza olfattiva perfetta. Tutte cose che leggiamo nel suo libro Il Respiro del vino.
Ma quando l’ho trovato nella carta in un importante ristorante e visto il prezzo mi sono ricordato del fuoco di fila che Luigi dovette affrontare ai suoi esordi. Non ne voglio fare una questione personale perché sarebbe antipatico mettere di fronte un Ordinario di Enologia a chi non ha alcun titolo di studio. Del resto, lo stiamo vedendo, nel nuovo Medioevo di Facebook la scienza è una opinione e ogni autorità viene contestata per principio. In mancanza di una seria crisi economica o di una guerra non c’è altro che il buon senso a tenere in piedi la misura delle cose. Ma purtroppo questo è sempre più raro.
Non farò nomi e cognomi anche perché non c’è nulla di personale ormai.
La maggior parte delle critiche si concentravano sul fatto che questi vini costavano troppo: come è possibile, si urlava a destra e a manca, per un Taurasi arrivare a 120 euro in enoteca?
Ora questa opinone, decisamente risibile ad ogni latitudine, è antropologicamente interessante per due motivi. Uno più strutturale, l’altro, purtroppo, generazionale.
Il primo riguarda infatti la mentalità subalterna che al Sud si ha verso qualsiasi cosa che venga da fuori a prescindere. Sembra incredibile, ma a parte caffè, pizza, dolci e pasta, sono poche le cose nelle quali un meridionale non mostra orgoglio per quello che fa. Il Sassicaia ha certamente una storia molto più breve del Taurasi ma a nessuno verrebbe in mente di dire che non può costare troppo. Lo stesso per i Supertuscans che negli anni ’90 rilanciavano prezzi più alti tra il plauso generale di tutti. E il Brunello, che ha costruito la sua fama a partire dall’inizio degli anni ’90 può da tempo spuntare il prezzo che vuole senza che nessuno lo discuta. Come il Barolo. In fondo si tratta di vini ancora economici se paragonati ai Borgogna e ai Bordeaux, ma anche rispetto a molte etichette della Napa Valley.
Ebbene mettere il Taurasi sullo stesso piano è sembrato a queste persone un furto, più o meno quello che si diceva del Montevetrano e il Terra di Lavoro. Perché i meridionali sono tutti neri, bassi, suonano il mandolino e i loro vini devono costare poco.
Ora i fatti hanno dato ragione al professore e noi tutti dovremmo essere contenti che sia possibile avere tanto reddito in agricoltura, tra l’altro continuamente reinvestito in cantina e in vigna. Non c’è altra speranza al Sud, e in Italia, se non apprezzare i prodotti dell’agricoltura. Fare sartoria rurale in un mondo globalizzato che gioca sulla quantità e i prezzi bassi perché senza regole verso la salute dei consumatori, i diritti di chi lavora e l’ambiente.
Questo aspetto strutturale che emerge di continuo da alcuni esponenti della Vandea gastronomica su altri settori (c’è chi si scandalizza per una pizza a 5 euro e poi fa la fila per l’iPhone), esiste ed esisterà a lungo e sarà piegato solo dai fatti. I tempi lunghi danno ragione a chi crede nel proprio progetto e oggi un vino come il Montevetrano è addirittura economico.
Il secondo aspetto, più soggettivo, lascia un po’ di amaro in bocca, perché gli alfieri di queste posizioni, schierati in prima linea, erano proprio coloro che avrebbero dovuto rappresentare la nouvelle vague della critica enologica campana, meridionale e nazionale. Giovani, ormai persone di mezza età, sicuramente oneste e preparate, che non battevano ciglia a sganciare il centone per un village ma che quello di Moio no, proprio non lo accettavano come prezzo e lo criticavano anche molto ferocemente e beffardamente sui forum, nei loro spazi web, nei commenti.
Oggi con Luigi si scherza di queste cose, ma ricordo bene il suo senso di smarrimento quando si trovò il fuoco amico, cioé campano, mentre era nel pieno dei suoi sacrifici con Laura e i bimbi piccoli.
Questa posizione era al tempo stesso un provincialismo alla rovescia (nemo propheta in patria) e una manifestazione di una ambizione non modulata alle necessità del tempo. Già perché il limite, professionale e umano, di questa fascia di degustatori è stata la mancanza di ambizione complessiva (non personale, ché questa non mancava certo) a capire, spiegare e raccontare l’intero mondo del vino ponendosi sempre contro o quello che non capivano, o che non governavano o che, più semplicemente, aveva preceduto il loro ingresso sulla scena poco dopo il 2000. Una generazione (magari giustamente) arrabbiata con un passato che non garantiva lo stesso futuro e che per questo ha adottato il principio del cupio dissolvi posizionandosi su protocolli desueti e alla fine noiosi: sempre con il piccolo contro il grande, a meno che grande non fosse il legno contro la barrique, il lievito indigeno contro il selezionato, il biologico contro il convenzionale e via discorrendo a prescindere dal risultato oggettivo e finale e soprattutto dal contesto storico e antropologico in cui ciascuna azienda ha piantato le sue viti investendo nella terra. In tal modo sono precipitati in una critica senza visione umanistica, tecnicista e ideologica al contempo e alla fine onanistica.
Se oggi devo tracciare un bilancio, noi abbiamo contestato quelli che ci hanno preceduti sempre con la paura di sbagliare, studiando come folli le notti prima delle assemblee, molti (ovviamente non la maggioranza) esponenti di questa fascia invece hanno esibito orgogliosamente lo slogan “lasciateci sbagliare”.
Bello, populistico, molto chic spararlo su facebook o dirlo davanti a un gin tonic alle due di notte, ma così hanno perso il racconto del vino dal 2008 in poi.E soprattutto hanno perso la narrazione complessiva del mondo vitivinicolo italiano.
Aspettate, già sento la risposta: non ci interessava farlo. Appunto.
In poche parole, un professionismo che si è autoconfinato nell’hobbysmo. Colto, appassionato, anche stimolante. Ma non altro.
Quando Vigna Grande Cerzito avrà cento anni a molti questo post lasciato galleggiare nel web sembrerà un nonsense. Forse già oggi lo è visto che per fortuna si affaccia una nuova generazione libera, meno ideologica, più preparata e soprattutto senza rabbia verso chi li ha preceduti.
Penso però al fatto che se è tanto difficile per un imprenditore del Sud emergere è anche perché si trova di fronte a queste problematiche che altrove non esistono.
Tematiche che anche noi siamo stati costretti ad affrontare e misuraci con appellativi non proprio carini tesi a screditarci che ben suonavano alle orecchie di chi ha pregiudizi contro il Sud e Napoli.
Però c’è un risvolto positivo in tutto questo: se si supera l’antimeridionalismo dei meridionali, il successo mondiale è assicurato.
Come è stato per il Montevetrano, come è adesso per i vini di Luigi.
Buona vita a tutti.
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