Camilla Baresani
Gli Sbafatori
Mondandori
pp. 134 euro 16,90
Devo dire che ero prevenuto sull’ultima opera di Camilla Baresani: sarà il solito pamphlet contro il giornalismo gastronomico corrotto, magari anche l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
Invece è un efficace affresco sulla decadenza etica e culturale del nostro Paese descritta con sarcasmo, ironia, competenza, divertimento, che si legge tutto d’un fiato come ho fatto ieri usando un Barbaresco 2009 di Adriano. Un Paese dove una generazione prossima ad uscire di scena, la mia, cerca di restare attaccata ai privilegi di quelle precedenti che ancora dominano perché da subito hanno chiesto e ottenuto il potere senza mollarlo.
E nel quale le giovani generazioni devono invece subito mettere i sogni nel cassetto e usare una bella dose di cinismo per sopravvivere con espedienti che sino agli anni ’80 erano prerogativa dei tossici.
Una metafora del giornalismo italiano, troppo intimo all’oggetto di cui si occupa, sia la gastronomia come la politica, le auto, la moda e via via tutto il resto. E che adesso, con la diffusione del web, non ha neanche più la preoccupazione etica di fingere, nascondere. In tanti blog trovi il banner e poi i pezzi sotto.
La trama narrativa è semplice (forse troppo e in questa direzione probabilmente uno sforzo in più magari era necessario per rendere il libro avvincente anche per chi non è del settore): si parla di un incontro crepuscolare tra un giornalista di 58 anni, Guidobaldo V, che ha maturato potere e influenza nell’era del cartaceo e una giovane foodblogger di 27, Rosa, che si è buttata nella scrittura gastronomica per sbarcare il lunario. Si trovano a Venezia per una verticale di Dom Perignon, la prima volta per una blogger in un consesso sempre riservato ai media tradizionali, e subito finiscono a letto, poi lei lo rincorre sino alle Strade della Mozzarella per reincontrarlo a Paestum, attratta dall’esperienza appagante con un uomo maturo, potente e che la può aiutare a prendere l’ascensore della visibilità sociale e mediatica.
Rosa non è una arrivista tout court, è soprattutto espressione simbolica di una generazione di ragazze che non ha coetanei che le sposano o posti fissi che l’attendono, di una adolescenza che ormai dai 18 anni è prolungata sino ai 40 e forse più, di un declino epocale dell’etica della responsabilità. Una generazione verso la quale l’autrice non ha indulgenza e neanche pietà per dirla tutta, che si accultura cercando le notizie su Google (una tecnica che salva spesso Rosa dall’imbarazzo) e non in biblioteca come le precedenti e che fa dei toni assertivi la sostanza stessa del messaggio.
Lui tiene in pallino in mano della relazione, decide sempre come e quando vedersi tra presentazioni e convegni sino al capovolgimento di situazione: sostituito alla conduzione di una trasmissione Rai, fatto fuori dal suo vice nella rivista che dirige, Guidobaldo vede l’ascesa di Rosa che invece è sempre più corteggiata dagli sponsor che hanno ben capito. Perdendo potere, l’uomo esce quasi automaticamente dalla categoria degli sbafatori e costretto a pagare, per la prima volta, la stanza occupata con Rosa, rivela se stesso in un finale fulminante:
Guidobaldo si avvicinò. “Che facciamo, dividiamo?” le chiese. Fu così che si guardarono negli occhi, disgustati l’uno dell’altra.
Un sottofondo amaro ma ogni rigo è godibilissimo, denso, divertente pieno di battute anche quanto meno te lo aspetti, come la funambolica scopata del cuoco star con Rosa: “Nella foga dell’inizio, la luce della camera era rimasta accesa e Rosa, notando che Orazio aveva le unghia sporche (pulizia dei carciofi? No, non era stagione) aveva provato fastidio e ribrezzo. Più tardi, mentre la penetrava, lo chef si era bruscamente interrotto perché gli era venuto in mente un nuovo piatto”.
Grandi pezzi di narrativa comica, alcuni con spunti geniali, sono la descrizione del backstage degli uffici stampa milanesi, i primi barometri del potere di ciascuno di noi, e la scelta degli improbabili press tour organizzati con i soldi pubblici oltre che delle presentazioni di questo o quel prodotto.
Un grande unico circo, insomma, anche se leggendo il romanzo si stenta a credere che il tema riguarda una delle poche cose che funzionano alla grande nel nostro Paese. Ma noi italiani alla fine difficilmente siamo stati capaci di sceneggiare e spettacolarizzare le nostre grandi passioni, il cibo, il calcio, il ciclismo, la stessa politica.
Ecco perché, proprio attraverso il cibo, il libro della Baresani per me resta la metafora di un Paese che ha perso l’etica comportamentale. Non ci sono editori che credono più nel giornalismo disposti a pagare l’indipendenza di chi scrive e che fanno distinzione tra giornalismo e comunicazione, la maggior parte di chi scrive non è pagato o è sottopagato e deve barcamenarsi con mille trucchi e alla fine si perde di vista il fine di tutto: dare notizie credibili e verificate in modo autonomo.
Da un punto di vista più tecnico, è anche una efficace narrazione del passaggio del potere dai media tradizionali al frastagliato e improvvisato mondo del web che misura i like, istagramma, feisbucca e twitta segnando così la propria esistenza, lucciole di una notte ben presto cancellata dalla luce del giorno. Per poi ricominciare.
Infine una considerazione politica: l’alternativa a questo mondo sono i tipi alla Visintin? Per l’autrice decisamente no: sono il classico antipotere costruito dal potere, personaggi che per emergere nel circo fanno finta di volerlo distruggere.
Come farebbe Guidobaldo senza l’Uomo Mascherato? E come farebbe l’Uomo Mascherato senza Guidobaldo?
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