di Floriana Barone
Giuseppe Iaconelli ha mosso i primi passi come allevatore autodidatta a San Pietro Infine (CE) alla fine degli anni Ottanta: Giuseppe Iaconelli ha dato una bella scossa al settore dei formaggi italiani. E lo ha fatto con una tradizione tutta sua, fortemente identitaria, senza avere alle spalle un bagaglio familiare di conoscenza, costruendo l’azienda agricola, Optimum Sancti Petri, nell’oliveto di famiglia, con un allevamento di 800 capi, tra pecore e capre.
Proprio lì, in questo paesino campano al confine con Lazio e Molise, Iaconelli ha fatto la sua prima grande esperienza con le pratiche agronomiche, accanto al padre, scomparso poi nel 1998 in azienda. Giuseppe ha viaggiato e ha perfezionato le sue competenze sull’affinamento e sulla stagionatura dei formaggi, consolidando le sue ricette e lavorando molto bene sulle contaminazioni con il territorio circostante. Non ci sono dubbi: nel corso degli anni, questo curioso e vulcanico allevatore di confine ha lasciato un segno tangibile nella filiera del latte nel Sannio e Alto Molise. Oggi Iaconelli non nasconde la sua passione sfrenata per i monolatti e porta avanti il progetto del “Caseificio diffuso”, collaborando con diverse realtà del Centro-Sud per la produzione di formaggi di spessore.
Perché ha intrapreso questo mestiere?
“Questo lavoro l’ho scelto: non vengo da una famiglia che mi ha tramandato un patrimonio di sapienza. E, per un certo tempo, questo per me è stato un limite importante. Poi, è scattato qualcosa: ho cominciato a vedere questo ‘deficit’ come motivo di grande forza e l’ho capito alle prime prove pratiche. La mia esperienza più grande ha riguardato la parte agronomica: all’inizio degli anni Novanta, in azienda abbiamo installato il primo impianto di mungitura meccanica. La nostra era una filiera chiusa e corta. Per me quella esperienza ha rappresentato una palestra fondamentale, che oggi mi consente di vantare competenze non proprio comuni in Italia, soprattutto sui latti”.
E proprio da queste competenze è nata l’idea del “Caseificio diffuso”…
“Sì, il Caseificio diffuso è nato da una precisa esigenza: quindici anni fa ho scelto di non avere più una mia struttura, un caseificio fisso. Ho venduto tutti gli animali e poi ho abbandonato la parte zootecnica e, quindi, non ho più avuto una produzione diretta di latte e un caseificio aziendale, ma un opificio. Quando ho iniziato a collaborare con la comunità di San Patrignano ho capito che quella era la giusta direzione. Poi, ho intercettato l’interesse di aziende private e ho iniziato a collaborare anche con loro, partecipando a eventi di rilievo, nazionali e internazionali. Ho amplificato le mie competenze soprattutto sulla fase di post produzione, affinamento e stagionatura dei formaggi; ho iniziato a lavorare sul miglioramento e sulle ricette, sulla filiera del latte nel Sannio e Alto Molise, in paesini come Vastogirardi e Carovilli. Tutto il lavoro che svolgo sulla pasta filata segue il modello dell’Alto Molise: è un processo studiato nei minimi dettagli”.
Con chi collabora attualmente?
“Oltre a lavorare con S. Patrignano per il settore della formazione e per i prodotti, collaboro con alcune realtà campane, come il Caseificio Il Casolare di Alvignano (CE) per i formaggi di bufala. Proprio all’interno della collaborazione con il Casolare, sono anche socio e consulente di Ella-Mozzarella di Bufala campana e selezione di formaggi, una società costituita sette anni fa, che si occupa dei prodotti di bufala di eccellenza, partendo dal benessere degli animali e dalla qualità del latte. Lavoro, inoltre, con l’azienda Nelmiocampo di Ariano Irpino, Sanniolat Srl e con Giuliano Di Maturo di Pietraroja, un giovane allevatore di pezzata rossa. Optimum Sancti Petri distribuisce in Campania: tra i nostri clienti c’è Sasà Martucci– Pizzeria I Masanielli, ma anche su Roma. Nella Capitale, i miei clienti sono diversi, tra cui il gruppo Roscioli, il gruppo Rebecchini, la pizzeria di Qvinto, il Big di via Amsterdam e Rigatoni sulla Tuscolana”.
Ci racconta un progetto importante a livello professionale?
“Con Alberto Marcomini, qualche anno fa, abbiamo messo in piedi un progetto sull’isola di Gorgona, nell’Arcipelago Toscano, insieme all’azienda Frescobaldi, coinvolgendo i detenuti della Casa di Reclusione con l’obiettivo di rilanciare un caseificio, fare formazione ai detenuti, realizzando formaggi di qualità. Su quel progetto, avviato senza fondi e durato due anni, ho anche redatto alcune relazioni consultive. All’epoca avevamo chiesto e ottenuto capre e qualche coniglio e avevamo effettuato un’attenta selezione. Anche in questo caso, abbiamo dato vita a un’esperienza di contaminazione dei formaggi con il territorio circostante, essiccando, ad esempio, il timo e il ginepro”.
Qual è stato il primo formaggio che ha prodotto? E l’ultimo?
“Il primo è stato “Signurinella” all’inizio degli anni Novanta: un prodotto che rappresenta la mia tradizione. Un formaggio di pecora morbido, tendente al molle, in crosta fiorita. L’ultimo, invece, è stato il “Bulbo”, un formaggio a pasta filata di pezzata rossa a forma di uovo, senza la classica chiusura del caciocavallo. Prima della formatura viene montato lo zafferano in stimmi di Pietravairano e il tartufo bianco molisano in frammenti.
La mia è stata una scelta consapevole: ho intrapreso un mestiere identitario, pur con alcune contaminazioni nate da idee e viaggi e lavoro con gli elementi che ho a disposizione, come un grande ginepro o un ottimo peperone crusco. I miei ingredienti non sono solo campani: utilizzo, ad esempio, un olio al bergamotto calabrese. Ho ideato una linea di pecorini di piccola pezzatura dove l’olio extravergine d’oliva è il primo ingrediente che si usa quando si inizia un processo di affinamento. Ho selezionato una serie di aziende calabresi, molisane e abruzzesi, scegliendo un olio Evo franto insieme all’aroma, non per infusione. L’olio evo aromatizzato al timo e origano va sul Mediterraneo, un pecorino ricoperto da 12 diverse erbe, nato dalla mia esperienza sul conciato. E, in questo caso, l’unica erba in infusione è l’origano”.
Recentemente ha iniziato a ragionare sull’introduzione dei “cru” dei formaggi italiani…
“Lavoro prevalentemente in Campania e al Sud per raccontare le variabili che entrano in gioco nella produzione di un grande formaggio, come la stagione, lo stato fisiologico, la razza, il criterio di allevamento, l’alimentazione, il sistema di vita dell’animale. Recentemente con Giuliano Di Maturo abbiamo monitorato una serie di pascoli stabili, posti a distanza tra loro di circa un chilometro e mezzo, con tipicità ambientali totalmente diverse e differenti tempi di maturazione dell’erba. Abbiamo quindi diviso le mandrie di vacche e le abbiamo lasciate quindici giorni al pascolo. Abbiamo raccolto i latti e, dopo due mesi, sono stati prodotti i caciocavalli. E abbiamo notato inizialmente una differenza cromatica, dovuta ai carotenoidi. Poi, è stata effettuata un’analisi sensoriale: il formaggio più giallo aveva un corredo aromatico più spiccato, un profumo più complesso. Il mio è un ragionamento: con un latte fuoriserie si può produrre un formaggio fuoriserie. In questo discorso può rientrare a pieno titolo il mio “Mamma Bruna”, realizzato con un monolatte di razza Bruna, raccolto nell’Alto Matese generalmente tra marzo e ottobre e, eventualmente, anche a febbraio. Penso a un ‘cru’ dei formaggi: insieme al Prof Michele Scognamiglio stiamo pensando allo sviluppo di questo ragionamento”.
Quale sarà il prossimo passo di Giuseppe Iaconelli?
“Con Salvatore Di Gennaro de La Tradizione di Vico Equense abbiamo un’intesa molto forte e siamo andati oltre, lanciando un progetto di grande rilievo per il mondo caseario: vogliamo dedicare un luogo alle paste filate, che ospiti formaggi monolatte con forme, tipologie di filatura e di stagionatura quanto più diverse possibili”.
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