«Quando legge che c’è sulla carta, il cliente deve avere una crisi mistica. Questa è la mia cucina: io non voglio incuriosire, voglio tentare». E Giovanni Passerini cuoco tentatore lo è. Basta sentirlo raccontare, con l’eloquio di Roma nord che dieci anni di Parigi non hanno scalfito, i piatti che serve nel suo nuovo ristorante del dodicesimo arrondissement, già osannato da pubblico e critica: astice in doppio servizio (prima la coda appena sbollentata e poi «du spaghi» con le chele, il cervello e il corallo) oppure i tortelli «estremamente chiodati» ripieni di gorgonzola e cumino in brodo di alghe e ricci di mare, o la trippa alla romana (sì sì, a Parigi si può) o la pasta e fagioli col peperoncino del Cilento, o il «caneton mi sauvage» arrostito intero con polenta di mais rosso dei paesi baschi e gratin
Rilanciamo questa intervista rilasciata da Giovanni Passerini per il Mattino. Lo seguiamo dai tempi di Rino e siamo sicuri che nonostante il grande traguardo raggiunto dopo il riconoscimento di Fooding, ha ancora molto da dire.
«Una cucina che va da Michael Jackson a Pappalardo» riassume con un’ironia non comune fra i grandi cuochi. Nessuna sorpresa che sia stato incoronato miglior chef 2016 dalla guida Fooding. Nessuna vocazione precoce o nel Dna: di solida e verace famiglia borghese romana della Balduina, il ragazzo era destinato a una qualche carriera opo la laurea in Economia con tesi sul sistema bancario. E invece un servizio militare scampato per «sovrannumero» e una fidanzata in Germania lo catapultano stagista in un ristorante stellato di cucina franco-tedesca di Colonia.
Inizio di un cosmopolita apprendistato sul campo: in Germania impara i fondi e a cuocere la selvaggina, alla Pergola dell’Hilton fa fare un balzo in avanti sul cv (ma maturerà uno sprezzo definitivo per qualsiasi cucina «fanatica»), a Madrid sbriga la pratica della tecnica, impara a sifonare le mousse ma anche a non soccombere all’High Tech. La svolta decisiva è il ritorno a Roma dell’Uno e Bino a San Lorenzo di Gloria Gravina: «Le devo tutto, è stata la prima a credere in me, anche troppo, mi diceva: sei il meglio di tutti». Ma Passerini ha la testa sulle spalle: nel 2007 sbarca a Parigi sapendo che c’è poco da fare lo sbruffone e si rimette in gioco, passa dai più grandi, l’Arpège, lo Chateaubriand di Inaki Aizpitarte e La Gazzetta di Petter Nillson, prima di aprire «Rino»: un ristorante con quatto fuochi, un forno da casa diventato «cult» assoluto.
Giovanni è cresciuto, ha chiuso «Rino» lasciando orfani molti parigini buongustai, si è sposato con Justine, è nata Lucia. E adesso ricomincia: con «Passerini».
«Sì, siamo solo io e mie moglie. È un vero ristorante familiare, cioè di famiglia, non di uno chef: per questola scelta del nome, anzi, del cognome. È una rottura totale col passato. In questa fase di crisi economica e sociale, in questa Parigi ferita dagli attentati, ho voluto creare un luogo accogliente, con spazio, bei tavoli, sedie comode. Un posto dove si sta bene e dove si condivide».
Anche la cucina è accogliente?
«Proprio così: una cucina che non deve incuriosire, ma tentare. Una cucina mangiabile non di trasformazione. L’High Tech non m’interessa, lo lascio volentieri agli altri. Preferisco lavorare sull’aromatico o sulle cotture. Ma attenzione, la cucina mangiabile non è necessariamente grassa o ignorante. Io i clienti li voglio far svenire».
Vicino al ristorante ha aperto anche un pastificio: perché?
«Volevo fare qualcosa che a Parigi non c’è e in Italia è praticamente impossibile da fare: una pasta fresca di altissima qualità. Sono molto orgoglioso delle nostre paste. Facciamo dei bigoli con farine antiche, che proponiamo al ristorante con brodo di anguilla, cozze e carciofi»
Siamo in piena controtendenza: «Passerini» è poco «trendy» e molto più di «sostanza»: è così?
«Io e mia moglie, anche lei nel mondo della gastronomia, abbiamo mangiato praticamente in tutti i migliori ristoranti del mondo. E a un certo punto, come dire?, ci siamo rotti. Ci siamo chiesti quale sarebbe stato un posto dove davvero è piacevole andare una sera in cui si ha voglia di uscire. Un posto dove non c’è il menù degustazione, ma una carta vera, dove si potesse condividere qualcosa con gli altri, un posto dove trovare semplicità ma anche perle rarissime e grande professionalità. Questo posto non c’era e lo abbiamo fatto».
Dalla cucina familiare nessuna eredità?
«Sono romano, ma ho i nonni campani. E se c’è un piatto che mi ha dato voglia di diventare cuoco sono le pizzelle di nonna Maria».
A differenza della maggior parte dei cuochi pluristellati, lei non sembra tanto esaurito. Come fa?
«Ma non è vero, io sono molto esaurito (ride). Oggi sto a casa per una lombalgia, ecco perché sono più rilassato. Una sera non ero soddisfatto della cottura di due pollastre e me le sono sognate tutta la notte».
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