Giovani certezze| Serio, motivato, follemente innamorato: Matteo Torretta

Pubblicato in: Personaggi


di Andrea Guolo

Matteo mette soggezione. Grande, grosso, taciturno, lo sguardo che si leva di rado ma, quando ti punta, senti come una voce da lontano che dice: occhio a sparar cazzate, questo non perdona. Lo accompagna poi una strana fama di cuoco inquieto, litigioso, che cambia i ristoranti come si cambiano le lenzuola del letto, e quasi sempre il rapporto finisce male, molto male.

Con queste aspettative mi presento al suo cospetto per l’intervista, fissata nel nuovo regno di Torretta, il ristorante Al V Piano dell’hotel Grand Visconti Palace di Milano. Ma l’uomo che mi si piazza di fronte è altra cosa. Grande e grosso senz’altro, 190 centimetri di altezza per 120 chili di peso; in più, anche se vestito da chef non si vede, è densamente tatuato, a completare un phisique du role da autentico camallo d’altri tempi e luoghi.

Eppure, se superi il timore iniziale e parti con le domande, Matteo è uno che parla a ruota libera, lo fa a cuore aperto. Si rivela. E capisci che, in fondo, è tutta apparenza, hai di fronte uno che potrebbe essere un pezzo di pane, magari per dimensioni un pagnottone d’Altamura, pugliese come le origini di Matteo, come i profumi di orecchiette con le cime di rapa che si diffondevano nella casa della nonna materna a Rho dove capì, da bambino, che la cucina ce l’aveva nel sangue e che quello avrebbe fatto nella vita: il cuoco. Potrebbe, dicevamo. Perché Matteo Torretta, classe 1981, tifoso della seconda squadra di Milano (quella sbagliata), è uomo, non santo. E quando si incazza, si incazza. Gli devi rispetto, com’è giusto. È persona seria e, in quanto tale, pretende serietà da chi gli sta accanto. Non ama le scorciatoie, detesta le furbate. Forse perché di furbetti, nella sua carriera ormai più che decennale, ne ha incontrati molti: ed è sempre finita male. Di questo, più di qualsiasi altra cosa, si lamenta, come il Bennato dei tempi d’oro che cantava: nella mia categoria, tutta gente poco seria, di cui non ci si può fidare…

Matteo, chi sei?

Uno dei tanti esempi di meticcio italiano. Mamma meridionale, pugliese di origine, commerciante; papà di Milano, grande fotografo naturalista che ha lavorato in passato per il National Geographic. Essendo mamma sempre impegnata in negozio e papà in giro per il mondo a scattar foto, sono cresciuto con mia nonna Anna e sua sorella Giuseppina. Alla loro tavola ci si riuniva tutti, non soltanto a Natale: a qualsiasi ora smettessero di lavorare, genitori e parenti finivano per sedersi a mangiare in quella casa. Una tradizione che continua tuttora, anche se nonna ha quasi 90 anni.

Menu della casa?

I classici della tradizione pugliese. Sono cresciuto rimanendo affascinato da tutto ciò che rappresentava la cucina e, anche se per un periodo non sapevo bene cosa avrei voluto fare della mia vita, essendo stato piuttosto sbandato e dedito a cose non del tutto lecite, una volta recuperato l’uso della ragione decido che avrei studiato per diventare cuoco. Così mi iscrivo all’istituto alberghiero Porta di Milano, dove mi diplomo nel 1999, e via, si parte. Prima esperienza pazzesca, da Gualtiero Marchesi all’Albereta, mica male per un debuttante: il Maestro al comando, primi chef Andrea Berton ed Enrico Crippa. Ci resto un anno.

Aspetta, stiamo correndo troppo forte, torniamo da tua nonna. Cos’hai imparato a cucinare in quella casa?

Orecchiette con le cime di rapa, pasta fresca, poco altro e di pura sussistenza. Il piatto migliore di mia nonna, quello che ancora oggi “così buono lo fa solo lei”, sono i panzerotti con il ripieno di pesce. Non un pesce in particolare, quel che c’è in casa. Il segreto non è nella materia prima, ma nella passione che ci mette, nell’amore con cui si fanno certe cose. Ancora oggi Giuseppina tutti i sabati, alle sei e mezza del mattino, prende la bici e da Rho si sposta ad Arese per comprare il pesce al mercato. Può sembrare strano, ma a Milano e dintorni, se sai cercar bene, si trovano prodotti veramente buoni.

Fai così anche per il tuo ristorante?

Ho dei fornitori di fiducia da cinque anni, in pratica da quando ho iniziato come primo chef. Talvolta nel nostro lavoro sei costretto a rifornirti dagli stessi nomi a cui si rivolgono i colleghi, perché ci sono ditte che dispongono di una sorta di monopolio sull’alta qualità, penso per esempio ad alcuni prodotti di origine spagnola. Però, quando posso, preferisco andare io stesso sul luogo. Capiamoci, non credo assolutamente al km zero, una filosofia che non sposo perché non può esistere quasi da nessuna parte, tanto meno a Milano. Ma anche qui ho le mie roccaforti…

Fuori i nomi!

Sai dove trovo i migliori ortaggi che ci si possa immaginare? A Milano, mercato di piazza 24 maggio, in un banchetto gestito da sudamericani: da loro mi procuro radici di prezzemolo, yuca, manioca, tapioca, banane, peperoncini. E sì che ne ho girati di mercati in vita mia! Ma non c’è confronto.

Oltre a questo?

Per il pesce vado due volte la settimana al mercato ittico generale, per la carne ho macellai che mi supportano da anni. Credo che il segreto di una buona cucina consista nella ricerca della materia prima più adatta per un certo tipo di preparazione. Se devo fare un crudo di carne bovina, scelgo il fassone; per la griglia preferisco puntare in Toscana… Lo stesso vale per il suino, certe preparazioni richiedono la cinta senese, altre il maialino casertano. In Italia abbiamo questa fortuna, un paniere di prodotti eccellenti a cui attingere. Molti miei colleghi invece comprano tutto nella maniera più semplice, ma poi non valorizzano la materia prima come dovrebbero. Altri ancora, se parliamo di vino, comprano determinate etichette di champagne solo per ottenere dei favori in cambio. Facciano loro, io non ci sto. Non scendo a compromessi.

In effetti ti accompagna una certa fama, quella di non essere accondiscendente.

So che molti scommettono sul mio conto: chissà se Torretta riuscirà a restare più di un anno in quel locale… Ma francamente non capisco perché mi considerino un ribelle, uno scavezzacollo. Di cinque anni da primo chef, se ben guardiamo, tre li ho passati al Savini, esperienza straordinaria e che si è conclusa per il motivo che tutti sanno: i proprietari volevano trasformare il ristorante in un bistrot, a me l’idea non piaceva. Tante cose sono state dette su quella separazione, ma la verità è che io sono riconoscente a loro, persone meravigliose, per la possibilità che mi hanno offerto, quella di diventare primo chef a 27 anni in un colosso della nostra ristorazione; e che i miei ex datori di lavoro, un anno e mezzo fa, mi stavano per richiamare. Se non sono tornato è soltanto perché, nel frattempo, avevo fatto altre scelte.

L’esperienza sarda, ai Feudi della Medusa? Piuttosto breve, a dire il vero.

Il più grave errore della mia carriera. Non mi sono fidato dell’istinto. Ma ripeto: non mi pare di aver cambiato così tanti locali negli anni. Lo dico spesso ai giornalisti che me lo chiedono: se la rivista per cui lavorate non vi paga, voi continuate a scriverci?

Resta la fama di testa calda.

Ho una struttura fisica che può trasmettere determinati input. Parlo poco, ma lo faccio perché sono timido, sto sulle mie. Esco da sempre negli stessi posti, frequento il solito bar da anni, cerco di evitare coloro con cui non mi rapporto. Le cose sono un po’ mutate dallo scorso anno, da quando ho fatto delle apparizioni in tv che mi hanno sconvolto la vita. Ma ti assicuro che il carattere è sempre lo stesso: quel poco di celebrità non mi ha montato la testa, non ho cambiato giro, non parlerò mai male di un collega.

Lo chef che più ti ha segnato?

Martìn Berasategui. Quando sono andato a lavorare in Spagna avevo un’impronta francese, frutto delle esperienze da Marchesi, Cracco, Perbellini. A San Sebastian sarei dovuto rimanere tre mesi, per uno stage. Mi sono fermato per quattro anni. Cucina da 60 cuochi, ognuno con la sua mansione precisa, un’organizzazione bestiale. Se al posto mio ci fossi stato tu, non sarebbe cambiato nulla ai fini del risultato. Lì ho capito che per diventare un grande chef devi essere prima di tutto una grande persona. Berasategui aveva otto ristoranti, 14 stelle Michelin, scriveva libri, andava in tv e faceva un numero imprecisato di consulenze in giro per il mondo. Ma se dovevi chiedergli qualcosa, si fermava ed ascoltava, sempre disponibile. E poi dalla cucina spagnola ho imparato quel che manca in Italia.

Cioè?

L’apertura mentale. Tra gli spagnoli la tradizione è altrettanto radicata, ma sono pronti a sperimentare le novità. Vedevo clienti di 70 anni che ordinavano spume e sferificazioni, poi commentavano l’esperienza. In Italia non me lo immagino proprio. Ma anche tra gli chef è diverso. Loro, a differenza nostra, sono stati capaci di fare gruppo, di portare avanti tutti assieme una scuola. Sono stati più intelligenti di noi.

A chi ti riferisci?

Vedi, io faccio parte di quella che chiamo la “seconda repubblica” degli chef, e vi includo ragazzi di trent’anni come Mathias Perdomo, Andrea Aprea, Viliana Varese, Andrea Mainardi. Con loro mi trovo spesso, abbiamo fatto gruppo, siamo amici. Quelli della “prima repubblica” invece, professionisti straordinari come Cracco, Scabin, Berton, hanno concesso poco spazio ai giovani, vogliono stare al centro della scena e le divisioni emergono di conseguenza. Diciamo che, rispetto a come l’ho vissuta io da sottoposto, noto che ora tra chef c’è più sinergia, più comunione d’intenti.

E la gerarchia estrema, la “militarizzazione” in cucina, è rimasta la stessa?

È giusto che ci sia, ma il livello si è ammorbidito. E per fortuna! Se facessi passare ai miei le stesse situazioni che ho vissuto io dieci anni fa, sarei uno scemo. La cucina degli anni ’90 era fatta di tantissime ore e pochissime parole, retribuzioni misere, sacrificio e dedizione, formazione e rigore. Tutti elementi utili per formare la persona, per carità… ma oggi ne stiamo pagando le conseguenze, perché sempre meno ragazzi si avvicinano al mestiere.

Non è una vita facile, io non la farei per tutto l’oro del mondo.

È dura, con il tempo però ti abitui anche agli orari, al fatto di vedere la fidanzata nei ritagli di tempo. E poi questo lavoro ti offre tante soddisfazioni, non ultima quella economica. Oggi un ragazzo di 20 anni può diventare commis e guadagnare 1500-1600 euro al mese, spesato di tutto. Non so quanti altri mestieri ti concedano le stesse possibilità.

Qual è la peggior umiliazione che hai subito nella tua vita professionale?

In un ristorante molto famoso nel quale ho prestato servizio, uno dei tre sous chef aveva preparato un piatto per lo chef, ed era riuscito piuttosto male. Per togliersi l’impiccio sostenne che lo avevo fatto io, così lo chef mi chiamò a rapporto e me ne disse di ogni. Dovetti mordermi a lungo le labbra per star zitto, del resto non potevo fare altro. Poi però l’ho chiarita a modo mio…

L’hai menato?

No no, non arrivo a tanto. Quella persona poteva fare determinate cose, ma non è stata in grado; io ci sono riuscito. Nei fatti, lui ha perso e io ho vinto. Ciò mi è sufficiente. Lì per lì però avrei voluto spaccare tutto. Detesto chi non si vuole prendere le proprie responsabilità.

Ai furbi, secondo te, le cose finiscono per andar male?

Sì. Purtroppo però ce ne sono troppi di furbi, in questo lavoro e in questo Paese. Noi italiani facciamo dell’arte di arrangiarsi una regola di vita, ma non è così che diventeremo un popolo migliore. Se ci dessimo regole precise, staremmo tutti meglio. Comunque sono convinto che il cliente sia un giudice perfetto: lo puoi fregare una volta, e magari ti concede la seconda possibilità, ma poi stop. Se invece lavori bene, il ristorante pian piano si riempie.

Come si sta al V Piano del Grand Visconti Palace, l’attico gourmet, il ristorante dove ti trovi adesso?

Il progetto è partito da poco. Sono venuto qui un po’ per gioco, appena tornato dalla Sardegna non avevo un lavoro a tempo pieno, facevo il consulente per due locali a Milano di proprietà di una persona che non voglio nemmeno nominare, altrimenti finirei per fare pubblicità a un disonesto. Si è aperta quest’opportunità e l’ho colta al volo. La proprietà mi ha accontentato in molte cose, siamo all’inizio di quella che spero e credo sarà una partnership duratura.

Soddisfazioni?

Ho fortemente voluto al mio fianco come maitre Alberto Tasinato, me l’hanno dato. Il lavoro è impostato bene, in tre mesi abbiamo raddoppiato i fatturati, sono arrivati i primi critici. C’è tantissimo da fare, per ottenere risultati occorre che la proprietà ci creda e sostenga il ristorante, che è come una vettura da Formula 1: non basta il buon pilota, occorrono anche staff eccellente, investimenti in ricerca, continua immissione di risorse. L’essere all’interno di un hotel da 250 camere con occupazione giornaliera dell’80% costituisce senz’altro una spinta aggiuntiva.

Definisci la tua cucina in poche parole.

Deve essere riconoscibile e di base italiana, con l’applicazione di poche tecniche in grado di esaltarne i risultati. Non me ne frega niente delle tendenze, cerco gusti forti e ben definiti, nulla viene lasciato al caso. Faccio quel che mi va di fare. Non è una cucina ruffiana, o ti piace o non ti piace. Più o meno come me.

Milano ti piace?

È il mio posto. Purtroppo anche qui è pieno di gente poco seria, che ti illude e poi non ti paga, intanto però gira in Porsche con Rolex al polso per ostentare una ricchezza che non c’è, vivendo per fottere il prossimo. Vorrei abitare in una città più anglosassone, dove le regole sono certe e dove la giustizia si applica in tempi brevi per chi non le rispetta. Ma cerco di fare qualcosa di buono per il mio Paese, di cui sono orgoglioso, come lo sono della sua cucina. Un giorno, più avanti con gli anni, vorrei tornare a San Sebastian e magari chiudere lì la mia carriera.

Di tempo ne manca. Ma se, considerando come va l’Italia, arrivasse una mega offerta da Shanghai o da qualche altra città asiatica?

Meglio in Brasile, San Paolo.

Sei fidanzato?

Sì.

Beh, allora dovresti lasciarla a casa…

Non lo farò mai.

Scusa, vai a lavorare in Brasile con la fidanzata a seguito?

Sì, lo so, è come andare all’Oktoberfest portandosi la Nastro Azzurro da casa. Ma io la mia compagna non la lascio.

Chi è lei?

Si chiama Cinthia, è messicana, l’ho conosciuta nelle cucine di Berasategui, fa la pasticcera. È l’ago della bilancia della mia vita, il freno a mano che non ho, la sicurezza che mi manca, la persona che mi completa e mi dà quella tranquillità che mi permette di fare questo lavoro.

Ragazzi che dichiarazione!

Da quando l’ho incontrata non ci siamo più lasciati. Mi ha seguito in Italia, è stata prima la pasticcera di Pietro Leemann al Joia, poi con me nella breve parentesi in Sardegna; ora è tornata a Milano, lavora alla Taverna del Sacripante. Abbiamo preso casa sui Navigli, zona comoda per entrambi, nel quartiere dove ho vissuto durante gli anni del Savini.

E se la vita vi separasse?

No, non cedo a compromessi, io e lei ovunque ma sempre assieme. Fortunatamente, di uno chef e una pasticcera c’è bisogno ovunque, in Cina come a San Paolo.

A quando le nozze?

Ci sposiamo l’anno prossimo, ma è come se fossimo già sposati da un po’.

Non resta che organizzare il pranzo di nozze. Dove lo farete?

Da Perbellini. Del resto Cinthia è pasticcera, lui il migliore che abbiamo in Italia in questo ambito. Ti ho confidato il sogno, ora vedremo se diventerà realtà.


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