Giovani certezze. Matteo Fronduti: “Ho scelto il cliente che volevo, ho conosciuto i discotecari e ve li lascio. La movida milanese è droga, zoccole, mafia”
Se Torretta incute timore, l’altro big Matteo delle cucine milanesi, il Fronduti di Manna, visto in foto parrebbe anche peggio. “Adesso mi rompe il culo” pensavo, tirando a manetta lo scooter per le vie intricate del quartiere Turro, cercando di raggiungere il suo ristorante in clamoroso ritardo e pensando a quel profilo da Mastro Lindo che non promette affatto bene: il classico tipo che non è il caso di far aspettare troppo a lungo. Così parcheggio dove capita, mi fiondo al campanello, suono e mi si presenta di fronte lui: espressione non particolarmente minacciosa, pare più che altro sofferente; in più zoppica, ma è tranquillo, mi offre il caffè e dalle prime battute intuisco che l’uomo non è particolarmente fotogenico, vis a vis sembra un’altra persona. In due minuti prende il via, parlando a ruota libera di grandi nomi della cucina italiana e di cene memorabili. Come quella da Massimo Bottura a Modena, qualche anno fa, 11 piatti tutti “work in progress”, che quasi lo sconvolsero. “Forse la migliore esperienza gastronomica della mia vita” ricorda Fronduti.
E che delusione quando, un paio d’anni dopo, quegli stessi piatti erano finiti in carta ma non gli avevano dato le stesse emozioni… Il discorso scivola poi sul neotristellato Enrico Crippa e la sua insalata. “Viste le foto e letti i commenti, pensavo alla solita gastropugnetta. Così, la prima volta che sono andato ad Alba, ho chiesto l’insalata, con tutti i pregiudizi del caso. Devo ammettere che si tratta di un piatto della madonna!”. Terzo collega passato in rassegna: Philippe Leveille, Miramonti l’Altro, Concesio. “Ci ho portato i ragazzi lo scorso anno per il pranzo di Natale. Volevo far provare loro, che non la conoscono, cos’è l’alta cucina, ho perciò scelto un collega che non la interpreta come puro svolazzo. Philippe sa unire forma e sostanza, fa cose terragne e consistenti, e io in cucina ho dei ‘torelli’, che non si saziano con gli assaggini. Abbiamo fatto il percorso degustazione e devo dire che nessuno dei ragazzi è uscito affamato”.
Tu però proponi tutt’altro.
Per non incasellare la mia cucina in uno schema predefinito l’ho battezzata, con una paraculata, “attuale”. Nelle guide esce come “cucina creativa”, che vuol dire tutto e niente. A pensarci, è una definizione un po’ idiota.
Spiega con parole tue.
Il concetto alla base di Manna è: abbassare il livello dell’alta cucina, pochi fronzoli, tanta sostanza. Volevo una trattoria con coscienza, un locale fruibile a tutti, dove i clienti possono tornare spesso e senza spendere l’impossibile. Per questo ho abolito frizzi, lazzi, orpelli. Philippe a Concesio fa una cucina “carnale”, che mi piace da impazzire, ma opera in una location bellissima e prestigiosa, con un servizio d’alto livello, posate d’argento, calici Riedel da 36 euro l’uno. Tutto ciò ha un costo.
È solo una formula economica? Percepisco in te una certa antipatia verso il “grande ristorante”.
Diciamo che, nel momento in cui ho deciso che avrei fatto il “mio” ristorante, non volevo intercettare quello stesso pubblico che avevo sfiorato quando lavoravo in certi posti. Perché se prima non avevo rapporti con i clienti, essendo chiuso in cucina e dovendomi misurare esclusivamente con lo chef di cucina, i miei commis, il cibo, qui invece sapevo che sarei dovuto “uscire”, parlare con i clienti, intrecciare relazioni. Siccome non ho voglia di fingere né di sentirmi a disagio, non volevo interfacciarmi quotidianamente con gente che non mi piace.
Perché non ti piace?
Perché l’alta cucina è fruita sì da gastrofanatici alla ricerca del piatto e del beau geste, ma essendo anche una cosa molto cara, viene vissuta dai più come uno status symbol. E io ne avevo abbastanza dei ragazzini figli di miliardari che in discoteca si fanno i gavettoni con il Crystal che, perdio, è un ottimo champagne, ma ha assunto una connotazione molto volgare per l’utilizzo sbagliato che una fascia di pubblico ne fa. Questi discotecari pieni di soldi lo hanno preso come simbolo per il fatto che è molto caro, non perché molto buono.
Un po’ come il caviale, no?
Al Manna non troverai mai caviale, tartufo o scampi. Tanto meno il foie gras, e non certo per motivazioni ideologiche. Ho scelto di inserire materie prime di ordinaria reperibilità, le stesse che potrebbe comprare la sciura Pina al mercato sotto casa. Con la differenza, non banale, che io ho i miei pusher di fiducia, mentre la sciura Pina, forse per ragioni di tempo, non è riuscita a procurarseli.
Eppure il tuo collega Torretta diceva che le più belle “sorprese” le aveva trovate proprio al mercato sotto casa.
Vale anche per me. Il mio macellaio l’ho conosciuto in un hard discount, un posto orribile che frequentavo esclusivamente perché, tra le botteghe di servizio, c’è una tintoria che riesce a tirare le divise bianche immacolate, non gialline come te le riducono in altri lavasecco. Il lavandaio un giorno me lo presenta, dicendogli: questo ha un ristorante, prova a vendergli la carne. Vado al bancone, guardo e gli dico: non ti offendere, ma non ci siamo proprio. Lui mi risponde: se voglio vendere a chi esce dal discount devo proporre questa carne, ma tu dimmi cosa ti serve e io provo a cercartelo. Dopo qualche giorno mi porta una guancia di maiale da urlo, che si era procurato in macello familiare in provincia di Mantova, e sai bene quanto sia difficile trovare un buon guanciale di suino, perché va scalzato a mano dal musetto: tanto lavoro, poca resa, non gliene frega niente a nessuno. Loro invece lo fanno. Ora mi fornisce un sacco di carne, assicurandomi la tracciabilità da animali allevati allo stato semibrado.
Ti trovi meglio in cucina che in sala?
Assolutamente sì. Dicevo l’altro giorno ai ragazzi: mi manca da pazzi uno di quei bei servizi completi alla stufa, di quelli che gestivo ai tempi in cui lavoravo con Riccardo Camanini sul Garda, ristorante da una stella Michelin che gli stava stretta, dove alle otto non c’era nessuno e un quarto d’ora dopo avevi ottanta coperti in sala. Ho nostalgia dei livelli adrenalinici che raggiungi in cucina, delle sensazioni che provi quando sposti l’ultima comanda, guardi in faccia i colleghi e dici: anche questa sera è finita, tutto ok, tempi rispettati. Qui, giocoforza, mi sono allontanato dal servizio, non faccio l’attività produttiva e mi limito a operare da supervisor.
In cucina come ci sei arrivato?
Dopo il liceo scientifico. Prima di allora non avevo la minima idea di cosa significasse fare il cuoco, ma volevo provarci e allora entro nel ristorante di amici dei miei genitori, convinti che dopo tre mesi avrei mandato tutto all’aria. Invece…
I tuoi che fanno?
Mamma era educatrice in una scuola materna, oggi in pensione. Papà imprenditore, proprietario di una fabbrichetta di meccanica di precisione a sua volta ereditata dal nonno e che sognava di affidare all’unico figlio. A distanza di 17 anni penso che ormai si sia rassegnato.
Gli farai lo sconto quando viene a pranzo…
No, loro non pagano, sono gli unici a non pagare. Qui ho sempre presentato il conto a tutti, compresi i critici.
Qualcuno l’avrà presa male.
Pazienza. Quando viene un critico naturalmente lo riconosco, perché le facce sono sempre più o meno le stesse, ma faccio finta di nulla e niente trattamenti di favore. Ai miei ragazzi dico: con loro dobbiamo solo stare attenti un po’ più del solito a non sbagliare, concedere quello 0,1% in più dell’attenzione che prestiamo sempre ai clienti “normali”. Ma la polpetta è uguale per tutti. Sarebbe idiota offrire al critico quella ripiena di foie gras, controproducente abbellirgli il piatto con il fiorellino solo perché è lui. Poi il critico scrive, creando nella gente delle aspettative che finirebbero per essere deluse.
Cucina democratica?
Uguale per tutti. Perché devo concedere lo sconto o offrire la cena al giornalista che fa il suo lavoro? I grandi nomi, da Bay a Vizzari, da Bonilli a Mura, alla presentazione del conto non hanno mai battuto ciglio. Del resto, a certi livelli, voglio pensare che non paghino di tasca loro, ma che siano rimborsati dall’editore. E allora a che serve?
Nessuna vendetta?
Della critica non mi posso lamentare. Quest’anno mi sarei aspettato mezzo punto in più da L’Espresso, perché siamo cresciuti parecchio, ma non è importante, sennò entriamo nella sfera delle gastropugnette. Ciò che conta per me è riempire i tavoli, far da mangiare bene, aver la cassa piena a fine servizio, vedere che la gente quando esce è contenta. Ieri sera un cliente mi ha detto: puoi riservarmi un tavolo per tre la prossima settimana, che arriva mio cugino da Londra? Fantastico, aveva appena finito la cena e già pensava alla prossima.
Torniamo ai 19 anni. Dopo la prima esperienza hai fatto un po’ di scuola?
Zero. La mia scuola è stata l’esperienza in cucina.
Più facile o difficile rispetto ad aver frequentato una scuola?
Boh, potrei risponderti soltanto se l’avessi frequentata. Vedendo però i miei ragazzi, che hanno iniziato a lavorare dopo aver studiato in istituti pubblici o privati, penso che la scuola, per com’è strutturata in Italia, grossomodo non serva a una minchia.
Quindi, cosa consiglieresti al ragazzino che vuole diventare cuoco?
Gli direi: prima fatti una cultura personale, acquista una sovrastruttura intellettuale solida e che ti permetta di comprendere il mondo. Poi, se vorrai, potrai fare l’orologiaio, il meccanico o il cuoco, avrai in ogni caso gli strumenti per capire la materia. Se non sei un’idiota, sarai in grado di capire ed eseguire ciò che gli altri ti spiegano. Magari questo non vale per il ricercatore astrofisico, ma sono certo che per fare il cuoco la scuola non sia indispensabile.
Cos’è indispensabile?
Scegliersi un posto difficile, uno di quelli dove si lavora tantissimo, magari un locale della “Milano da bere” nei quali la clientela ci va in auto blu e mediamente di cucina non ne capisce un cazzo. Ma sono anche quelli che fanno cento coperti al giorno e dove in cucina ci stanno quattro cinesi, due magrebini e un italiano: se non muovi le mani lì, te le fanno muovere per forza.
Parli per esperienza personale?
Quel posto per me è stato l’Armani Caffè. Arrivavo da diverse esperienze, alcune delle quali allucinanti, e mi trovo finalmente in un locale “vero”, con Nicla Nardi come direttrice e Roberto “Bebo” Cristoferi come chef, piatti strutturati e cento coperti a pranzo. In cucina eravamo in 4. Per 15 giorni faccio il commis, poi mi chiamano in disparte e mi dicono: muoviti, non sei qui per prendere appunti, devi assumerti le tue responsabilità. L’ho fatto. Preparavamo la pasta in casa: non avevo la minima idea di come si facesse un raviolo, mi trovo a doverne preparare 70 porzioni al giorno. Se iniziavo alle nove, mi presentavo in cucina alle otto e mezza, poi alle otto. È stata una grande esperienza.
Poi?
Con Armani inizia il mio periodo “griffato”. Da lì passo a Trussardi alla Scala, nella fase pre Berton, quindi un anno di Just Cavalli Caffè. Non ho fatto Dolce e Gabbana solo perché non avevano ancora aperto il Gold… Cavalli, a suo modo, mi è servito moltissimo: ho capito cosa non si deve fare in un ristorante. In più mi sono divertito come un pazzo, guadagnando un sacco di soldi e lavorando solo di notte. Certe volte staccavo alle 4 del mattino e poi la tiravo lunga, fino alle 9, che tanto poi stavo a dormire fino al tardo pomeriggio. Una stagione pazzesca, alla fine però ti rendi conto che, stretti i pugni, ti rimane solo la sabbia tra le mani.
Sesso, soldi, successo. La “filosofia” di Sara Tommasi.
Quella della movida milanese può essere un’esperienza divertente, ma vissuta da questa parte della barricata presenta troppi rischi. Milano di notte è una città estremamente pericolosa, esistono delle commistioni tra luce e buio che corrono sul filo della legalità, e a volte varcano decisamente il confine. Devi stare più attento a come ti muovi. Da cliente è una cosa, ma se stai dentro gli ingranaggi vedi delle cose nel backstage che non hanno nulla a che fare con la cucina e tanto meno con la legalità.
Ti riferisci a?
Droga, zoccole, criminalità organizzata.
Il più grande gruppo della ristorazione a Milano si chiama ‘ndrangheta. Hai mai avuto a che fare nella tua carriera con dei locali-copertura?
Ho quasi sempre avuto la fortuna o l’accortezza di scegliere posti dove il primo pensiero era il meccanismo del ristorante: cucinare, vendere cibo, incassare. Ciò non toglie che di realtà come quelle che tu indichi ce ne sono tante a Milano. Le riconosci subito: spuntano come funghi, non hanno identità, spesso chiudono nel giro di qualche mese, non si sa mai chi c’è dietro, chi ci lavora e chi li frequenta.
Come si può difendere il cliente che non intende frequentarle?
Leggendo il menu, secondo me, capisci tante cose. Se tra gli antipasti trovi crudo imperiale di gamberi, scampi rossi, mozzarella di bufala, pizze, carne argentina e foie gras, già intuisci che qualcosa non va. A parte che in un posto del genere non ci entrerei neanche se fosse sano, ma un menu simile riflette l’assenza di identità e il fatto che la proprietà lo abbia aperto nella migliore delle ipotesi come divertissment, nella peggiore come lavanderia. Sono posti senz’anima, nei quali il cibo ha un valore secondario.
Quanta droga gira nei ristoranti alla moda?
Ti posso rispondere così: all’epoca ero visto molto male, perché pare che fossi l’unico a non drogarsi.
L’unico dello staff?
Forse l’unico di tutto il locale, clienti compresi. All’interno dello staff c’erano i più oculati, che usavano le sostanze a scopo didattico e ai fini del lavoro, ma c’erano anche i tossici duri, distrutti, che arrivavano alle sei del pomeriggio marci, appena svegliati, completamente devastati dalla serata precedente. Poi, magicamente, andavano a cambiarsi e uscivano frizzantissimi dallo spogliatoio.
E tu?
Ero malvisto, considerato poco congruo perché non pippavo. Ti racconto questa. Avendo praticato il basket a livelli agonistici, mi sono spaccato otto volte il naso, quindi in alcuni momenti mi capita di soffrire di epistassi. Una sera al lavoro, improvvisamente, mi si apre il rubinetto dal naso, senza alcun motivo. Beh, nessuno in cucina ha avuto il minimo dubbio che si trattasse di un problema medico legato a infortuni precedenti; era ovvio, scontato, che fosse una conseguenza dell’assunzione di cocaina. Io negavo e loro mi dicevano: è arrivato il principino, quello che certe cose non le ha mai fatte… a chi la vai a raccontare, guarda come sanguini!
Bell’ambientino, niente da dire. Torniamo al mestiere, che è meglio. Com’è stata l’esperienza da Oldani?
Sono andato al D’O perché si trattava dell’esempio più chiaro da frequentare per arrivare a proporre ciò che volevo. Dissi a Davide, in uno dei primi colloqui avuti con lui: il mio futuro lo vedo in un mio ristorante. Lui pose come condizione un periodo minimo di servizio, io lo accettai, andandomene via alla scadenza. Dopo un anno trascorso a cercare il “mio” luogo, ho trovato il Manna ed eccomi ancora qua, a tentare la strada del bistrot moderno in Italia.
Cos’è che garantisce il successo a un ristorante?
Se lo sapessi avrei già fatto un sacco di soldi! Battute a parte, ci sto provando. Quanto il terribile e bravissimo critico gastronomico del Corriere, Valerio Massimo Visintin, venne qui la prima volta, mi massacrò. La seconda volta, per i suoi standard, secondo me fu un’ottima recensione. Il titolo: “Qualche consiglio al bravo Fronduti”. Scrisse che qui dentro c’è troppa luce, il verde delle pareti è eccessivo e ricorda un’astanteria, la zuppa di fagioli buonissima ma le cozze inutili, i carciofi cucinati in maniera eccezionale ma il piatto risulta slegato. Ci ha fatto, a modo suo, dei complimenti, concludendo che la somma totale dei singoli elementi risulta maggiore rispetto ai singoli elementi stessi.
Qual è il valore aggiunto del Manna?
Chi viene qui dentro è come se entrasse a casa mia. Si tratta di un investimento a lunghissimo termine, non di una mera operazione di cassa, che se si concretizzerà come voglio sarà la roccaforte di un progetto più ampio, in fase di studio. Mi piacerebbe ‘togliere’ ancora di più: via le posate, via il servizio, andare all’essenza, vendere cibo buono e decontestualizzato. Vorrei creare una valida alternativa al panino in piedi al bar da cinque euro.
Cosa ti fa incazzare di più?
La non corrispondenza tra parole e fatti, il quaquaraquesimo come disciplina imperante: non lo sopporto. Il valore fondamentale per la caratura di un uomo è il rispetto di se stesso, che implica il mantenimento della parola data. Capiamoci: solo gli idioti non cambiano mai idea, ma non devi essere volubile secondo il tuo tornaconto. Non devi promettere per ingraziarti chi ti torna utile e poi non mantenere ciò che hai detto perché questo ti porterebbe a fare ciò che non vuoi. Mi repelle, e non soltanto in campo lavorativo. Se non rispetti la tua parola non rispetti te stesso, non sei un uomo ma soltanto bruciante ossigeno.
Quante ore passi qui dentro?
12, 14, 16… dipende dalla giornata.
Riesci ad avere una vita privata?
Questo mestiere ti fotte la maggior parte del tempo, per sopravvivere devi elevare il livello qualitativo di ciò che ti resta. Non posso certo permettermi di cazzeggiare sul divano.
Fammi capire meglio. Domani è domenica, siete chiusi, che fai?
Domani lavoro, mi tocca mettere a posto la mailing list, finire di pensare alla carta d’inverno, badare ai conti.
Iniziamo bene… domenica scorsa che hai fatto?
Sono andato da Crippa. Sveglia presto, giretto per Alba con gli amici, poi pranzo.
Sempre lavoro, in fin dei conti. Come fai ad essere fidanzato?
Infatti non lo sono più. Vengo da una storia di dieci anni, che si è chiusa da poco perché lei, che come me lavorava di notte, al compimento dei 30 anni ha sovvertito la sua scala personale di valori. A quel punto il mio lavoro non rientrava più nelle sue esigenze.
Ma come diavolo fanno i cuochi a creare una famiglia? Siete costretti a riprodurvi tra di voi.
Ne conosco diversi che hanno sposato donne di tutt’altra vita e professione. Donne con le palle, che sapevano a cosa andavano incontro e che riescono a convivere con la mancanza di tempo del proprio uomo.
Questo mestiere lo farai fino a quando….
… riuscirò a stare in piedi, con i dolori alla schiena che ho.
Noto. Certo che, per avere 35 anni, sei preso un po’ male.
Ma no, è soltanto un’ernia in fase acuta. Solitamente non sto così, e poi fa male soltanto quando mi alzo dalla sedia, fatti i primi passi va meglio. Magari la prossima settimana sono già in forma smagliante. Ogni tanto devo andare in ospedale a farmi fare la morfina, che è una figata…