Giovani certezze | Dmitri Galuzin: la tradizione castellana difesa da un giovane bielorusso

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Figlio di una badante, 24 anni, lo chef di Uinauino è un talento che possiede umiltà e dedizione. La sua filosofia? Dopo Adrià nulla è più inventabile, bisogna guardare al passato. E lui lo fa nel territorio che l’ha adottato, Castel San Pietro Terme.

di Andrea Guolo

Umiltà e dedizione. Signore e signori, ecco a voi Dmitri Galuzin, 24 anni, autentico talento che sta emergendo nel panorama della cucina emiliano-romagnola dal borgo di Castel San Pietro, che segna il confine tra i due territori. Il suo regno è nelle cucine di Uinauino, nome bizzarro, che però rende l’idea del locale che voleva lanciare il proprietario, Michele Cavedagna, distributore e importatore di vini: enoteca, prezzo onesto, aperitivo di qualità con possibilità di cenare. Dice Michele che prima di incontrare Dmitri aveva passato in rassegna una trentina di candidati chef e nessuno lo aveva convinto. Il colloquio con il giovane, all’epoca ventiduenne, durò poco più di 30 secondi. Quel ragazzo bielorusso possedeva tutte le caratteristiche che occorrevano per il suo locale. La fame, innanzitutto.

Quella voglia di dimostrare le proprie capacità che contraddistinguono chi parte da zero, chi alle spalle non ha una famiglia che lo sostiene e che, se va male, pazienza, c’è sempre un tetto sotto cui ripararsi e un patrimonio di cui disporre. Dmitri tutto ciò non l’ha mai avuto. La madre lasciò il proprio paese una decina di anni fa per venire in Italia a fare la badante. Oggi fa le pulizie di casa, come tante donne della sua terra. E può andare fiera dei due figli: la sorella insegna a Giurisprudenza, Dmitri ha trovato la sua dimensione nel recupero, proprio lui che viene da Minsk, della tradizione gastronomica della valle del Sillaro. “Il primo piatto che preparò? Volevo lanciarlo fuori dal balcone” ricorda Michele. Oggi questa strana coppia raccoglie i primi riconoscimenti: enotavola dell’anno secondo la guida Espresso, miglior trattoria di nuova concezione per Il Golosario di Paolo Massobrio, premio Buona Cucina per Luigi Cremona e la “sua” guida Tci. Ma non chiedete allo chef, anzi al cuoco, se questi premi lo hanno emozionato…

Che cosa hai pensato quando te lo hanno detto?

Ho cercato di non pensarci. Se ci pensi troppo, i premi rischiano di danneggiare il lavoro. Non devono diventare l’obiettivo di un cuoco.

Poi ci spieghi qual è il tuo obiettivo. Ora però raccontaci chi sei, da dove vieni…

Otto anni fa ho lasciato il mio paese per raggiungere mamma in Italia. Lei viveva qui, a Castel San Pietro, dove c’è un ottimo istituto alberghiero, il Bartolomeo Scappi. E io avevo già maturato la passione per la cucina. Così mi sono trasferito e ho iniziato a seguire le lezioni, senza sapere una parola di italiano. Il primo giorno di scuola ho copiato tutto dal foglio del mio compagno di banco, compreso il suo nome e cognome, perché non avevo idea di cosa stesse scrivendo…

Com’è stato l’approccio con l’Italia?

Amavo la mia terra, non è stato facile abbandonare amici, parenti, abitudini e stile di vita. Ho dovuto dimenticare il bambino che ero, per iniziare la vita in Italia da uomo adulto. La scuola mi ha permesso di farlo, i professori mi hanno aiutato molto. E poi ho sempre lavorato, fin dal primo anno di studi.

Essere straniero, partendo da zero, ti ha dato maggiori motivazioni rispetto ad altri compagni di classe?

Questo non c’entra. Ciò che conta, a prescindere dall’essere più o meno benestante, sono gli stimoli che ti riesce a dare una famiglia. A mio avviso i grandi chef, persone come Gualtiero Marchesi, diventano tali soltanto se sono allo stesso tempo grandi uomini. E i grandi uomini si formano sulla base dei valori trasmessi dalla famiglia che li ha generati. Conta la passione, che ti spinge ad arrivare, fare, studiare.

Con quali chef hai lavorato prima di arrivare a Uinauino?

Dopo la scuola, ho passato due anni al Cambio, Bologna, con Max Poggi. Quindi al Golf Club di Castenaso, con Carlo Valeri.

 

E con chi vorresti lavorare un giorno, se ne avessi l’occasione?

Non mi sono mai posto questa domanda… Non saprei.

La tua cucina è radicata al territorio. Non male, per uno che arriva da un paese distante migliaia di chilometri…

Mi piace affrontare la tradizione, recuperare il passato del territorio in cui vivo. Ho la fortuna di non dover dire che faccio le tagliatelle come faceva mia nonna! Perciò posso approfondire la ricerca, sperimentare tecniche e cotture nuove, anche moderne, che mi permettono di alleggerire i piatti e di mantenere determinate caratteristiche organolettiche dei prodotti che utilizzo.

Mi ha colpito la qualità delle materie prime che utilizzi.

Tutto nasce dal contatto umano. Prima di costruire un piatto, ho la necessità di conoscere il contadino o l’allevatore che mi forniranno l’ingrediente. Prendiamo il maiale. Con il nostro precedente fornitore, la macelleria Zivieri, per vari motivi abbiamo deciso di interrompere il rapporto. A quel punto ci siamo guardati attorno, volevamo trovare qualcosa di veramente unico nel territorio. E l’abbiamo trovato in un ragazzo che sta poco distante da qui, assolutamente sconosciuto, appassionato come pochi. Appena l’ho conosciuto ho pensato: è lui il mio uomo!

 

Passatello al ragù di cortile, gratinato, salsa carbonara

Ho assaggiato la costolina, non teme confronti…

(interviene Michele. “La cottura viene effettuata a bassa temperatura, per 40 ore. La prima volta che l’ha preparata, per essere certo del risultato, Dmitri è rimasto in cucina per tutto il tempo, a osservare come procedeva”).

Come l’hai conosciuto Michele?

Tramite uno chef mio coetaneo e amico. Ci siamo subito intesi, lui aveva in mente lo stesso locale che avrei voluto creare io: informale, servizio leggero, menu semplice e che potrebbe quasi sembrare banale. Poi però il cliente, se il piatto vale, se ne accorge.

 

Tortellino di caprino fresco in brodo di carciofi alle erbe aromatiche

Hai mai pensato: questo lavoro non fa per me?

Ogni tanto mi domando perché non me lo chiedo mai… specie quando parlo con amici che invece hanno deciso di cambiare lavoro.

Su quali piatti della tradizione locale stai lavorando?

In questo momento sto proponendo il bollito. Castel San Pietro ha come tradizione il castrato, mi piacerebbe dedicarmi un po’ di più a questo e altri piatti, devo però tener conto che non sono facili da proporre a una clientela che viene da fuori città.

E del tuo paese d’origine cosa vorresti proporre?

La vodka! È il regalo che faccio a tutti quando torno dalla Bielorussia.

Sì, ma come ingrediente non ci esalta. Dì la seconda…

Allora la panna acida. Si accompagnerebbe bene con un brasato di manzo, il pollo, una tagliatella con i funghi porcini. Magari un giorno la sperimenterò.

Dopo Uinauino, dove ti vedresti bene?

Non ci ho mai pensato. Per ora mi interessa soltanto portare avanti questo progetto e migliorare ogni giorno il menu.

E di tempo libero ne hai?

Poco. E quel poco che ho lo dedico in maggior parte allo studio, al confronto con gli altri, andando a provare i loro locali. Per la fidanzata, in questo momento, non credo di averne a disposizione.

Ti piacerebbe un giorno tornare a casa, aprire un tuo ristorante in Bielorussia?

Preferisco tornarci in vacanza. E poi, com’è noto, la situazione politica in Bielorussia non è particolarmente bella. Meglio non parlare del governo del mio paese… Spesso devo stare attento a ciò che dico al telefono, perché c’è un sistema computerizzato che intercetta eventuali parole in codice.

Già, meglio non parlarne… pensiamo piuttosto ai piatti dell’infanzia, che sono il nostro bagaglio culturale gastronomico. Qual è il tuo?

Spesso preparo i mantè, che sono una specie di tortelli ripieni di manzo e cipolla, cotti a vapore, serviti con una salsa piccante di pomodoro e rafano. Devo dire che quando li ho fatti sono sempre piaciuti. In realtà non si tratta di un piatto bielorusso, sono originari del Caucaso.

Torniamo all’inizio. Nel 2012 ti sei tolto parecchie soddisfazioni, si parla molto di te.

Mi interessa poco comparire nelle guide, non lavoro per questo. Sono ben più contento quando si complimentano i clienti. Mi piace uscire in sala a fine servizio e capire assieme a loro, attraverso il loro giudizio, come posso migliorare i piatti. Uno qualche sera fa mi ha detto: sembra che tu faccia cose banali, ma alla fine riesci a renderle interessanti, a stupire. È esattamente ciò a cui sto puntando. Credo che l’aver seguito in passato una serie di corsi da sommelier mi sia stato d’aiuto.

In che modo?

Costruisco i piatti con un metodo che ho acquisito in quei corsi. Seguo una sorta di schema dei sapori, cercando quei contrasti che esaltano gli ingredienti, per poi giungere a un finale equilibrato. E poi questo è un wine bar… Spesso facciamo degustazioni aperte, durante le quali riusciamo a costruire i piatti sulla base del vino d’accompagnamento.

A Firenze, per la presentazione della Guida Espresso, sei entrato per la prima volta nell’Olimpo degli chef. Ti avrà pure fatto piacere…

Mi ha fatto più piacere essere chiamato dalla mia scuola alberghiera per una serata dedicata agli chef delle migliori annate, anche se non ho potuto partecipare perché ero qui, in servizio.

Che paura ti fanno gli eventi mediatici?

Non vorrei montarmi la testa, sarebbe dannoso. Rischierei di perdere il contatto con la realtà e la concentrazione su ciò che mi interessa fare.

Cioè?

Trovare la semplicità, recuperare la tradizione, gli antichi sapori di questo territorio. Il mio è un approccio storico locale alla gastronomia. Si tratta di una scelta dovuta, perché dopo ciò che ha fatto Ferran Adrià è impossibile andare oltre. Non resta che tornare indietro, il più possibile. Gli chef devono smettere di fare gli chef e tornare a fare i cuochi. Non mi ricordo dove ho sentito questa frase, ma secondo me è giustissima. A Firenze ho partecipato, ritirando il premio, perché quel giorno il ristorante era chiuso; ma a Luigi Cremona, il primo dei grandi critici che è venuto a mangiare da me, ho dovuto dire di no per il concorso dei giovani chef promettenti. In quei giorni siamo aperti.

Beh, per una volta…

Se io vado a cena da Uliassi, a fine serata voglio parlare con Mauro Uliassi. Il cliente vuole lo chef in persona, non si accontenta della sua brigata, nemmeno se è al gran completo. Quindi, se questo è ciò che mi aspetto come cliente, lo devo garantire come professionista.

A proposito, quanti siete in cucina?

Diciamo in due…

Ecco perchè.


Una postilla. Tra tanti elogi, a Galuzin non è stata risparmiata diverse volte una critica: avrebbe la mano leggermente pesante. A mio modesto parere, chi lo sostiene non ha capito il senso del locale né il contesto in cui è inserito. La gente di Castel San Pietro non è disposta a spendere più di una certa cifra, e per quella cifra si aspetta porzioni generose. Venire qui e mangiare quattro o cinque piatti è da pazzi, due bastano e avanzano. Anche perché, se i piatti sono l’uovo fritto per antipasto o la costolina per secondo, si tratta praticamente di piatti unici. Ordinate di meno, vedrete che la digestione non costituirà un problema. Personalmente ho trovato ben più indigesti certi “finger” di ristoranti stellati rispetto alla costolina di maiale ripiena di patate al tartufo nero con millefoglie di zucca, un pezzo di carne grande quanto una fiorentina, con oltre il 50% di morbido e saporito grasso. Quando mi si è presentata davanti, non avrei scommesso i miei 50 centesimi su una notte tranquilla. Mi sbagliavo. Dmitri è riuscito, con la sua tecnica, ad alleggerire ciò che per sua natura è pesante.


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