di Luciano Pignataro
Oggi per il quarto anno consecutivo, i pizzaioli festeggiano Sant’Antonio, protettore dei mestieri legati al fuoco. La decisione di rinnovare un’antica usanza ormai dimenticata fu presa sull’onda dell’entusiasmo provocata dal riconoscimento dell’Arte del Pizzajuolo Napoletano da parte dell’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità nel dicembre 2017: uno dei rari casi, forse l’unico, in cui l’oggetto del riconoscimento ha dato lustro di notorietà all’Unesco e non viceversa.
La decisione mise un punto fermo, repetita iuvant, sulla città in cui bisogna mettere la punta del compasso quando si parla di pizza dopo alcuni anni in cui, per motivi squisitamente commerciali come sempre, questa indiscussa verità storica era aggredita da alcuni critici del Nord che si erano inventati il fatto che la pizza napoletana fosse solo uno degli stili della grande famiglia della pizza italiana. Quella che può sembrare una sottigliezza, una sfumatura, in realtà non lo è, perché ancora una volta era in corso il tentativo di scippare culturalmente qualcosa al Sud.
Se per esempio prendete la voce «pizza» della Treccani non c’è alcun accenno alla storia iniziata nel ‘700 a Napoli e si parla di Umbria e Toscana. A quando una lettera di protesta del sindaco Manfredi e dei presidenti delle Associazioni all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana?
Giornata della pizza: perchè un Museo a Napoli
Più che la capacità di reazione della categoria, è stato il mercato a ristabilire la verità attraverso una espansione senza precedenti della pizza di stile napoletano prima nelle altre province della Campania, poi in Italia e infine nel Mondo. Il motivo di questa supremazia commerciale è duplice: da un lato gli ingredienti base della pizza così come viene comunemente intesa, ossia margherita e marinara, sono del Sud: olio d’oliva, pomodoro e fior di latte. Dall’altro la pizza è un prodotto identitario che si distingue da tutti gli altri perché il metodo di lavoro, riconosciuto dall’Unesco e basato sui disciplinari Stg, realizza qualcosa di ben diverso dalla focaccia a cominciare dall’odore e finendo per il gusto.
Abbiamo avuto poi l’inizio di un processo virtuoso che ha portato i pizzaioli a cercare la qualità superando lo sbarramento psicologico dei 3,50 per la pizza margherita. La crisi iniziata nel 2008 e il cambiamento degli stili di vita, un modo più easy di stare a tavola, hanno fatto sicuramente il resto.
La mentalità napoletana, molto pratica, vive il presente perché il passato è passato e del «domani non v’è certezza». Resta il fatto che nella città della pizza non esiste un museo che la celebri. Da un lato questa assenza dimostra che parliamo di una cosa che vive quotidianamente e che non ha bisogno di essere musealizzata, dall’altra però significa essere indifferenti ad una domanda turistica che spesso di per se stessa ormai è motivo di viaggio nella nostra splendida città. Sarebbe opportuno che l’Università, il Comune, d’intesa con tutte le associazioni presenti, punti ad avviare questo processo perché la tutela del passato evita, nel mondo del sapere liquido dei social in cui tutto dura lo spazio di una giornata, che qualcuno si alzi rivendicando la primogenitura, come, appunto, stava succedendo con lo scippo andato a male.
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