Oggi la Michelin sta alla cucina come la barrique al vino degli anni ’90?
La notizia dunque è nota: il ragazzi del Giglio Restaurant di Lucca hanno ufficialmente comunicato di aver scritto a maggio alla Michelin chiedendo di non essere più inseriti come ristorante stellato in guida.
Le motivazioni sono nel comunicato diffuso qualche ora fa.
Eccole
“Vogliamo essere liberi di improvvisare i menù in base agli ingredienti che abbiamo a disposizione.” – Benedetto Rullo
“Vogliamo poter fare il lavoro che amiamo senza doverci preoccupare degli standard altrui.” – Stefano Terigi
“Vogliamo concentrarci sui nostri clienti perché possano vivere un’esperienza culinaria informale, accessibile, ma pur sempre di altissimo livello.” – Lorenzo Stefanini
“Vogliamo che il Giglio ci somigli, ci rispecchi, ci racconti. Vogliamo che sia un ristorante in cui andremmo a mangiare tutti i giorni, dalle cene in famiglia alle occasioni speciali.” – Benedetto Rullo, Stefano Terigi, Lorenzo Stefanini.
Che sia un urlo liberatorio sincero o una trovata pubblicitaria poco importa, a chi comunica e vive nella comunicazione interessa capire il significato dei termini nella testa della gente e come vengono interpretate le parole.
Il primo paradosso, che osservammo in occasione del Covid, è che la parte più fragile della ristorazione, quella che tardò ad aprire, era proprio quella più celebrata e osannata da tutti noi, ossia la ristorazione stellata. Come è è possibile che i più bravi non fossero anche i più forti? Un chiaro ossimoro se ci pensate, al semaforo verde dopo il lockdown solo il 16% dei ristoranti stellati era riuscito ad aprire nella prima settimana, il 22% dopo due settimane, il 40% dopo un mese.
La controversa semantica del termine Stellato
Il fatto è che in Italia il termine stesso stellato non ha mai avuto un significato univoco, ma è visto sia in termini positivi che negativi. Una cucina stellata vuol dire che è buona, ma al tempo stesso “non andiamo in una cucina stellata” vuol dire che complessivamente l’esperienza non sarà gradevole, pesante e non appagante e anche costosa. Questa situazione appare ancora più sorprendente perchè per quasi tutti gli anni ’90 il termine stellato fu legato alla espressione francese nouvelle cuisine per significare qualcosa di inutilmente complicato, poco leggibile, o a un piatto con piccole porzioni (“Ottimo puoi portare” è un evergreen). Se pensiamo invece che il movimento nasce in Francia per motivi esattamente opposti anticipando di quasi 15 anni i temi enunciati dal manifesto della nascita di Slow Food (Arci Gola per la precisione) nelle cantine di Fontanafredda la cosa appare ancora più sorprendente ed è da attribuirsi al luogo comune diffuso in Italia, che lo ha assorbito anche dal mondo anglosassone (cit. Emily in Paris) che lega la parola Francia ad aggettivi come sussiegoso, lussuoso, poco semplice, elitario, commerciale, artefatto, non spontaneo, costoso, non accessibile.
Questi due significati riferiti allo stesso termine per molto tempo hanno convissuto poi, a partire dalla crisi finanziaria del 2008-2009 è montato un rifiuto crescente e diffuso verso la cucina d’autore che in Italia non è riuscita a creare una narrazione forte e autorevole rispetto a quella tradizionale, quest’ultima cresciuta, paradossalmente, proprio mentre le abitudini quotidiane cambiavano, non si cucinava più a casa e quindi tanto più la voglia di piatti tipici regionali viene quando si va fuori al ristorante. Per capirci: la fortuna della genovese come piatto delle trattorie non ha più di vent’anni ed è dovuta al fatto che nessuno a casa, o quasi nessuno, la prepara più nella gestione dell’alimentazione quotiadana.
Sicché la modernizzazione dell’alimentazione quotidiana ha paradossalmente rafforzato, al ristorante, le aspettative di cucina tradizionale italiana.
Un altro elemento di confusione è dovuto alla sovrapposizione dei termini avanguardia e modernità. Il primo viene usato, a partire dal gergo militare e poi artistico e musicale soprattutto, per significare qualcosa di assolutamente nuovo e non utilizzato da nessuno in precedenza. Beh, in Italia negli ultimi trent’anni, tranne il caso di tre o quattro cuochi, nessuno ha inventato nulla sulla sfera tecnica. Marchesi ha importato la cucina francese moderna come Mike Buongiorno la tv all’americana in Italia, la generazione dei 50-60 al comando oggi le tecniche spagnoli e giapponesi modulate sui gusti tradizionali italiani, i giovani dai 40 in giù lo stile nord europeo la cui fortuna essenziale e neo protestante è dovuta proprio alla crisi economica a cui abbiamo fatto riferimento.
In questo quadro la Michelin ha cercato di dare delle risposte, ma la sua fortuna si deve soprattutto al crollo delle guide italiane su cui non è il caso di aprire qui alcuna parentesi. Chiunque abbia vissuto il web da Dissapore in poi conosce bene le motivazione di questo processo.
Fausto Arrighi intuì il cambiamento sociale, ce lo ricordano alcune scelte pop che oggi sarebbero impensabili, Sergio Lovrinovich si è rifugiato nella comfort zone della ristorazione di lusso diventando una guida non tanto della ristorazione itaiana ma della ristorazione in Italia per turisti stranieri.
In questo quadro è arrivato, devastante come può esserlo solo la televisione, Masterchef. A chi dice che è stato un programma positivo perché ha fatto parlare di cucina rispondo che i libri di Liala, rispettabilissimi, non hanno mai aumentato le vendite di Pirandello. Ma se i lettori di Liala sapevano bene che non leggevano qualcosa di simile alle opere del grande siciliano piuttosto che di Dante Alighieri, la forza della Tv ha convinto che in realtà la cucina fosse quella narrata da Masterchef e che il mestiere di cuoco porti ad avere fama e soldi attraverso la tv, i fondi degli sponsor, i congressi, le consulenze.
Nasce dunque una serie di cuochi che non parte dalle cucina delle navi e degli alberghi o dalle trattorie di famiglia, ma dai programmi televisivi in cui il verdetto di bontà di un piatto non viene dal gusto del pubblico ma solo da chi giudica il piatto. Un rapporto verticale. Fascista. Ecco dunque che il cliente esce dall’orizzonte lavorativo per molti cuochi e diventa un fastidioso intoppo.
Potrei raccontare al largo dei bastioni di Orione storie di cuochi, anche stellati, che hanno portato a quattro i tavoli chiedendo agli imprenditori non di investire sui prodotti ma sulla comunicazione per scalare 50 Best pagando biglietti internazionali ad altri cuochi. Ma anche questo è un altro capitolo, demenziale.
Risultato: nella percezione comune la lettura negativa del termine stellati finisce per prevalere su quella positiva, assunta come tale dal circolo ristretto del mainstream gastronomico italiano che partecipava ai congressi, scriveva sulle guide o sui blog o adesso sui social.
Ecco dunque che la sostenibilità di una impresa ristorativa non è più affidata solo alla sala e il pubblico comincia ad allontanarsi, sino a quello che d’ora in avanti definiremo il Paradosso di Lucca.
Nel corso di questi anni abbiamo spesso scritto su questi argomento prendendoci gli insulti soprattutto di chi campa sulle spalle di questo sistema: uffici stampa, uffici di pr, grafici, qualche fotografo. Ma che ormai si sia arrivati alla frutta è a me chiarissimo.
Non è solo una questione economica. Sono anche i rituali che sono diventati abnormi in questi anni. Se vai a tavola per parlare o con una persone che ti interessa è materialmente impossibile farlo in numerosi stellati dove persone di sala interrompono la conversazione per raccontare i piatti. Il solipsismo onanistico di alcuni chef obbliga a persorsi dai toni misteriosi, lunghi, pesanti, senza la leggerezza che hanno per esempio gli spagnoli e alla fine esci talmente stanco che sei hai voglia di scopare devi rinviare al mattino successivo dopo sedute che durano almeno tre ore.
Il fatto è che si sono invertiti i ruoli: non sono io chef che devo farti felice, ma sei tu che devi fare felice me dandomi la possibilità di esibirmi senza ritegno.
In un mondo veloce, soprattutto le giovani generazioni, almeno che tu non sia nato pecora Dolly, fuggono da tutto questo come noi scappavamo di fronte alle versioni di greco antico.
E se si tratta di una trovata pubblicitaria, il Paradosso di Lucca ristabilisce qual è, almeno in questi momenti, il significato della parola stellato da parte della maggioranza delle persone: costoso e palloso.
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