Fu il leggendario segretario di direzione del Mattino Gennaro Pelliccia ad indicarmi Varchetta, storico vinificatore sugli Astroni, un grano del rosario composto dalle aziende vitivinicole che sin dall’800 circondavano Napoli da Pozzuoli sino a Trecase e Portici, quando la città, enorme, tra le più grandi al mondo all’epoca, doveva dissetare i clienti di mille e passa osterie e trattorie. All’ingresso vidi un anziano signore impegnato nel lavoro di vigna che mi salutò con un cenno della testa continuando nelle sue cose. «E’ mio nonno Giovanni», mi girai e vidi sorridente Gerardo Vernazzaro, poco più che ventenne, fresco di studi in Enologia a Udine con il professore Zarone, ancora con i capelli (del resto io ero ancora magro e in splendida forma fisica).
Quel ragazzo l’anno successivo avrebbe cambiato il nome dell’azienda in Cantine Astroni, insieme alla moglie Emanuela Russo, per dare un contributo fondamentale alla nascita del Piedirosso moderno: pulito, fresco, dal naso floreale di geranio e attuale. E pochi giorni fa ha festeggiato le nozze d’argento della nuova azienda dove adesso sono entrati i cugini Vincenzo, enologo, e Cristina Varchetta come pr, davanti ad un pubblico di giornalisti piovuti da tutta Europa.
Napoli è talmente straordinaria in tutte le sue manifestazioni che a volte non si rende conto del vantaggio commerciale rappresentato dalla sua biodiversità culturale e colturale. Perché mica è normale coltivare la vite dentro una delle metropoli più urbanizzate del mondo. Racconta Gerardo in un post su Facebook: «Nel 1999 viene fondata Cantine degli Astroni come proseguimento naturale della storia vitivinicola della mia famiglia, che affonda le radici nel lontano 1891, quattro generazioni ed oltre un secolo nel mondo del vino, ed i primi 25 anni per noi della quarta generazione, per noi di Astroni. Una sera dell’agosto 1997 mi trovavo a Ibiza, solo di fronte al mare, decisi che avrei studiato viticoltura ed enologia a Udine e così fu. Nel 2000 la prima vendemmia completamente gestita da me».
Gerardo è uno dei Campi Flegrei Boys, una pattuglia di giovani adesso sulla soglia dei 50 anni, che ha contribuito a rivoluzionare la percezione nel mondo della critica e dei consumatori della Falanghina e soprattutto del Piedirosso, vitigno difficile in campagna perché poco prolifico e in cantina perché da sempre problemi di riduzione, ossia di puzzette, se non viene seguito nei dettagli durante tutte le fasi. Una generazione che non si è limitata a ripetere quello che avevano fatto i predecessori, ma che ha studiato e ha declinato il sapere straordinario di questi territori, che si scambia opinioni, che soprattutto beve vini di tutto il mondo che essere aggiornata.
Per capire il valore culturale del vino, la sua importanza nel dare dignità alle persone che coltivano la vite e potere attrattivo ai territori vocati, i burocrati di Bruxelles e gli scienziati pazzi al servizio delle multinazionali delle bibite gasate dovrebbero venire qui e respirare per ritrovare il senso delle cose.
Chi si occupa di viticoltura e di viticoltura sa che la storia ha un valore concreto, non solo narrativo. Quando vidi Gerardo per la prima volta capii subito che Varchetta aveva, come è capitato anche ad altre aziende storiche di vinificatori, l’energia necessaria per rinnovarsi e stare al passo con i tempi.
Dopo questa rivoluzione il Piedirosso non sarà certo il vino più buono al mondo, ma unico al mondo sicuramente dopo che Gerardo e i suoi coetanei lo hanno liberato dalle puzze contadine omologanti. Per usare le sue parole: «I vini dei Campi Flegrei, vini precari, vini moderni da vitigni autoctoni antichi, vini salati, figli del fuoco e del mare».
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