di Luciano Pignataro
“Non voglio deludere, ma io in estate ho solo e sempre lavorato. Non ho mai fatto un viaggio, mai un vacanza, nessun giro on the road”.
Esordisce così Gennaro Esposito patron della Torre del Saracino a Vico Equense, ambasciatore della cucina campana in Italia e nel Mondo.
Gennaro, neanche da ragazzino hai vissuto la tua estate?
“No perché a nove anni ho iniziato a lavorare nella pasticceria di mio zio Giovanni. Andavo a bottega alle 6,30 de mattino, riscaldavo le briosche e i cornetti, li farcivo come mi era stato indicato e poi ne portavo una parte alla Marina di Seiano dove si vendevano. Così tutte e estati, scendevo a piedi e poi risalvi trovando un passaggio.”
Insomma un esercizio al lavoro sin da bambino.
“Sì, ma guarda che io vivevo il lavoro non come una fatica, ma come una liberazione. A casa mio padre Alberto e mia madre Carmela avevano sempre qualcosa da farci fare, non esisteva per noi alcun momento di spazio. In pratica non esisteva il concetto di perdere tempo senza fare niente, cosa che mi è rimasta per tutta la vita. Ancora oggi è così: non riesco a stare fermo”.
Cosa facevate?
“Tutto, si puliva casa, si curava l’orto. Certo, quando poi ho iniziato a lavorare da mio zio avevo un giorno libero che si impiegava sempre per una gita in barca, da Marina di Vico allo Scrajio. L’estate per me vuol dire profumi, quelli dei cornetti e dei fazzoletti di pasta sfoglia con la crea, delle graffe, del pane con il pomodoro e il basilico, delle parmigiane di melanzane che faceva mia madre”.
Poi come sei diventato cuoco?
“A 14 anni mi iscrissi all’alberghiero di Vico. Per la verità non sapevo se scegliere la sala e la cucina, all’inizio ero confuso, sapevo solo che non avrei fatto il pasticciere. Non so perché. Poi fui attratto dalla cucina perché era una sfida continua contro i tempi. Da zio Giovanni noi preparavano i prodotti e poi venivano i clienti a consumare. Qui, invece, il cliente è seduto a tavola e aspetta, devi fare presto e bene. A me sono sempre piaciute le sfide e forse fu questo a spingermi verso i fornelli. Studiando e lavorando sempre nei locali della Penisola perché io non ho mai chiesto cento lire a casa. Mio padre operaio all’Italcementi, mia madre bracciante agricola, la famiglia viveva nel culto del lavoro e ognuno doveva contribuire a suo modo”.
Quali furono le tue prime impressioni nella scuola alberghiera?
“Ci furono subito cose che mi delusero: tanti semilavorati, si usavano materie prime come il salmone, al bresaola i piatti come il risotto alle fragole che non appartengono alla nostra cultura. Allora non esisteva internet, vedevo i piatti delle cucine francesi, ebbi la spinta a muovermi opo aver lavorato da Mustafà a Vico. Andai a Bergamo e per poco non andai a lavorare da Vittorio Cerea che all’epoca aveva il locale vicino la stazione. Finii in un altro posto e poi di lì a Roma, da Papà Giovanni. Ormai avevo 18 anni e fu una esperienza molto utile. Di lì a Sorrento ma dovetti interrompere per fare il militare e al ritorno con Vittoria Aiello aprimmo alla fine del 1991 la Torre del Saracino”.
Partiste con un progetto più ambizioso?
“Si, volevo fare qualità, proporre quei profumi da ragazzo. Avevo girato tanto per mercati del pesce e dell’ortofrutta, mi colpì il fatto che si usavano sempre gli stessi ingredienti e sempre gli stessi pesci mentre si buttava tutto il resto. Frequentato pescatori e fruttivendoli imparai bene a distinguere le cose buone da quelle di scarsa qualità. Avevo chiaro che si poteva cucina lo sgombro, la palamita, il pesce bandiera, ma non avevo ancora la tecnica per poterlo fare”.
Quella come arriva?
“Con Vissani. Fu l’ex direttrice di Banfi, Giuseppina Viglierco, un grandissimo personaggio purtroppo scomparso nel 2014, a spingermi in quella cucina e devo dire che in sei mesi la prospettiva mi cambiò totalmente. Fu importante soprattutto nella capacità di vedere gli abbinamenti dei prodotti tradizionali in modo nuovo e inusuale. Purtroppo dovetti tornarmene perché alla Torre del saracino c’erano difficoltà con la mia assenza prolungata. E’ stato sempre questo un po’ il tema della mia vita sinora. Un legame indissolubile con quel locale che all’epoca era molto diverso”.
Quando diventi Gennaro Esposito?
“Devo dire che la seconda metà degli anni ’90 c’è stato un fermento incredibile, c’era molta più. C’era ingenuità ed entusiasmo, non era tutto scontato come oggi. Mi ricordo il primo a scrivere di me fu Davide Paolini, poi nel 1997 arrivò Raspelli, mi ricordo che tu era proprio con te, poi scrissero Marco Bolasco e Clara Barra del Gambero. Insomma, nel 2000 abbiamo la prima stella. Ma noi non eravamo coscienti della importanza di questo riconoscimento, allora la stela si prendeva per quello che facevi, non c’era un progetto per ottenerla”.
Anni belli e intensi, sino alla seconda stella 2007 e al rinnovo del locale del 2008.
“Si, anni di creatività che per fortuna continuano perché bisogna sempre rinnovarsi, mai stare fermi ad aspettare. Sono gli anni in cui nasce Festa a Vico”.
Come succede?
“Nel 2003, per caso, ci trovammo ad una festa con i giovani ristoratori d’Europa (Jre), c’erano Licia Granello, Raffaella Bologna, Anna Abbona. Così, in quella notte spensierata ci venne l’idea di ripetere questa cosa e da allora è stato un crescendo che ha coinvolto tutt la comunità di Vico, un momento di incontro di tutta la gastronomia italiana ma senza convenevoli, perch* è pensata come una festa di cuochi”.
A quali piatti sei più affezionato?
“Forse la soddisfazione più grande l’ho avuta quando in pescherie sentii una signora che chiedeva il pesce bandiera perché doveva fare la ricetta della parmigiana. Per un cuoco vedere il proprio piatto diventare patrimonio di tutti è il massimo. Altro che paura delle imitazioni!”.
Ora sei sposato da sei anni, hai due bimbi, Emanuele di 4 anni e mezzo e Isabella di due. Ti farebbe piacere se uno dei due seguisse le tue orme?
“Presto per dirlo, il nostro è un mestiere duro che non fa sconti. Bisogna essere abituati all’idea che esiste solo il lavoro e niente altro. Vedremo. Vedo che a Emanuele piace pasticciare con mia mia moglie Ivana”.
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