di Carlo Macchi
Un tempo di diceva di un partito politico, di cui oramai sono rimaste solo le ceneri, che poteva essere “di lotta e di governo”. Dopo i tre giorni di Wine Summit, che ha presentato la realtà enoica altoatesina ad un nutrito numero di giornalisti italiani e internazionali mi sento di parafrasare quanto si diceva sul PCI affermando che i vini altoatesini possono essere da “Baita Daniel e da Sheraton”.
Abbiate pazienza che mi spiego.
Nei tre fittissimi giorni cadenzati da convegni, pranzi, cene, presentazioni, degustazioni con e senza i produttori sia in pianura che in alta montagna, visite in vigna con il sole o sotto la pioggia, quello che ti rimane, se scremi dalla enorme massa di cose che ti sono state messe sotto gli occhi e sotto il naso, è che l’Alto Adige vive un grande momento enologico, che nel prossimo futuro ne cambierà il profilo agronomico, enologico, commerciale mantenendo però per buona parte la sua immagine verso i consumatori. Il bello ( o il brutto) è che potrà cambiarlo in meglio come in peggio.
I vini altoatesini oramai hanno un mercato stabile in loco, nel resto dell’Italia e, per la stragrande maggioranza delle cantine, anche all’estero. Questa è una certezza confermata dai numeri e il successo ha portato tanti produttori, coadiuvati spesso da una Provincia Autonoma che i soldi sa spenderli bene, ad investire in vigna ed in cantina. In vigna il riscaldamento globale, che alcuni tecnici ipotizzano in un +5° entro il 2100, sta portando a piantare sempre più in alto, scoprendo però come la viticoltura al di sopra degli 800 metri abbia regole e dinamiche abbastanza diverse (tempi di maturazione, fioriture molto tardive e vendemmie conseguenti) nonché rischi dovuti al fatto che a quelle altezze (maggio di quest’anno lo dimostra) le gelate o addirittura le nevicate a maggio ( o magari a fine settembre) sono abbastanza probabili.
Da considerare attentamente che questo innalzamento futuro verrà sicuramente preceduto dalla nuova divisione in Unità Geografiche Aggiuntive, con ben 86 territori vitati selezionati da un punto di vista qualitativo e che potranno essere riportati in etichetta. Ma cosa potrebbe succedere se questa suddivisione risultasse troppo “a bassa quota” per gli sviluppi viticoli futuri?
Risposte difficili anche da dare in futuro: in definitiva la viticoltura altoatesina cambierà la sua fisionomia ma una parte di questa nuova strada dovrà essere percorsa con i piedi di piombo per tutto quello che ho detto prima.
In cantina non cambieranno tanto i vasi vinari o le barrique ma le mura esterne: in altre parole molte cantine hanno fatto o faranno investimenti per avere grandi e nuove cantine, più funzionali ma soprattutto di notevole valenza architettonica. Ne abbiamo visti degli esempi in questi giorni, ma tutti questi investimenti portano inevitabilmente un costo aggiuntivo ad ogni singola bottiglia. Da qui il non dover essere solo o principalmente vino dal grandissimo rapporto qualità/prezzo (come molti lo conoscono) per puntare ad una riconoscibilità certa anche tra i vini di alta o altissima qualità (naturalmente con prezzo adeguato). In questi giorni abbiamo degustato vini che andavano dai 10 euro agli oltre 150 e francamente questa enorme ampiezza della forbice è una recente novità.
Ma tutti questi cambiamenti non possono e non devono intaccare la base della comunicazione altoatesina, che parla di vini di montagna, freschi, bevibili, puliti. Non voglio arrivare a dire naturali perché il termine potrebbe essere equivocato, ma quando uno compra un vino dell’Alto Adige si immagina un po’ l’aria fresca di montagna (anche perché il 93% del territorio è di montagna).
Fino a qui una serie di commenti che credo logici e quasi consequenziali, però è probabile che per capire la vera essenza del vino altoatesino occorra lasciarsi un po’ andare e farsi cullare tra vigneti e aria di montagna.
E di queste due cose ne abbiamo avuta a volontà l’ultimo giorno, con un tour che ci ha portato prima tra vigneti a strapiombo su altri vigneti e poi ai 2500 metri del Pian di Seceda, dove prima abbiamo degustato “en plain air” e poi cenato (per fortuna tra quattro mura).
Una cena che dire meravigliosa è riduttivo in un locale che definire tipico non è assolutamente restrittivo. Si chiama Baita Daniel e si può raggiungere solo a piedi d’estate o d’inverno con gli sci (si trova nel mezzo alle piste della Valgardena). Quattro piatti meravigliosi, tra cui spiccavano un tris di canederli al burro fuso e formaggio che in 50 anni di frequentazioni montane mai avevo mangiato così buoni e uno strudel di mele assolutamente perfetto.
Ma il succo di questa giornata per me sarà sempre il contrasto vissuto tra il trovarmi alla Baita Daniel a 2500, con fuori 2 gradi e le nuvole che ti circondano minacciose e dopo poco, con un passaggio repentino, “sbucare” allo Sheraton di Bolzano, luogo con tutte le comodità e le patinate attenzioni di questo tipo di alberghi.
C’è chi preferisce la ruvida, saporita, viva accoglienza della Baita Daniel anche se scomoda da raggiungere, chi invece adora le colazioni “internazionali ma adattate al luogo” dello Sheraton.
Così ho pensato che il vino altoatesino si ritrova tra questi due estremi: può essere immerso nella verticale natura di queste montagne o patinato come un albergo a 5 Stelle.
Per adesso può essere tutte e due le cose, in futuro si vedrà.
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