Non capita spesso di coniugare esigenze tecniche e piacere in una degustazione. Anzi, diciamoci la verità, è sempre più difficile per gli impegni che si infittiscono, il tempo che sfugge, l’ansia di conoscere.
Ci sono momenti in cui questo succede. Per esempio trovarsi in una tenuta ricca di storia, Fontanafredda a Serralunga, trascorrere una bella serata a tavola con una cara amica come Monica Tavella, un appassionato enologo come Danilo Drocco, e qualche giovane promettente come Carlo Macchi, Kyle Phillips e Pasquale Porcelli.
Ci si ritrova, dopo aver provato gli ultimi vini Mirafiore nell’avveniristica sala degustazione voluta da Oscar Farinetti, nel salotto della casa patronale con la tipica sequenza piemontese: antipasto freddo di battuta, uno caldo, gli agnolotti del plin al sugo di arrosto, carne e dolce. Ed è così che in due ore ci godiamo la compagnia, le chiacchiere, i frizzi e i lazzi, la narrazione di vedemmie ghiacciate, i progetti del futuro: esperienze e sensibilità si incrociano in una verticale fuori programma, nella quale prendiamo atto della immortalità del Barolo.
Insomma, l’avete capito: siamo a Fontanafredda dove abbiamo fatto base durante le degustazioni dei Giovani Igp in Langa. Cento ettari di vigneto, fondata nel 1878 da Vittorio Emanuele per la sua Bela Rosin, poi per 72 anni di proprietà Mps sino a quando, nel 2008, è subentrato Oscar Farinetti
Non ci stancheremo mai di ripetere: così vanno provati i grandi vini. Restituendo loro almeno un po’ di tempo che ci hanno regalato aspettandoli, insieme al cibo, magari chiacchierando con chi li conosce. E’ la degustazione umanistica, nella quale le note tecniche indispensabili sono solo la chiave per entrare nello spirito del bicchiere e, in finale, soprattutto nello spirito della terra e di chi ci ha vissuto.
Per esempio faccio sempre questo paragone: di come le aristocrazie piemontesi, toscane e anche venete hanno sempre conservato un solido rapporto con la terra, investendo e promuovendo l’innovazione mentre quella napoletana ha solo consumato i propri feudi per costruirsi palazzi pensati in competizione con quello Reale. All’origine di una sconfitta storica e definitiva c’è forse anche questo approccio diverso con l’agricoltura. Cavour e Ricasoli pensavano al vino, Nicotera faceva accordi con la malavita per governare Napoli dopo la caduta dei Borbone.
E tutto questo resta nei tempi lunghi della storia, pesa sulle generazioni incolpevoli venute dopo.
Più che avere o essere, la dicotomia antropologica e psicologica è quella che oppone produzione a consumo
2007. Iniziamo con una annata che detesto perché mi riporta allo stile concentrato e fruttato degli anni ’90 che tanti danni continua a fare in regioni come la Calabria, la Sicilia e la Puglia. Non è una vendemmia fine, anche quando l’enologo come in questo caso lotta per salvare l’eleganza e preserva degnamente la freschezza. Il vino è perfetto, quasi pronto. Appunto.
2004. Saltiamo indietro di tre anni, c’era ancora il Monte Paschi di Siena ma la mano è già di Danilo. Qui il nostro pre-giudizio kantiano negativo si rovescia nel positivo quando al posto del 7 subentra il 4. Una annata sempre più in forma ed entusiasmante, qualsiasi sia il vino: dal Barolo al Taurasi passando per Gaglioppo, Amarone e Brunello. Intenso, fresco, ampio, dinamico, arrivo quasi a dire il mio preferito in prospettiva.
1999. Un’annata che mette tutti d’accordo: produttori, enologi, appassionati: una pienezza espressiva che inizia in vigna e si conclude nel bicchiere. Non sto a parlarvi della integrità dopo 12 anni perché con il Barolo è assolutamente scontata. Il naso ha ancora molta frutta in un buon corredo speziato, in bocca il vino entra senza mediazioni, in assoluto equilibrio, trovato ad un livello molto alto, fra tutte le sue componenti, la freschezza non è più scissa ma lunga e capace di sostenere tutto l’impianto. Un finale lungo, persistente, intenso che rimanda al naso e alle note di ciliegia matura.
1996. Qui la platea si divide un po’. Carlo e Pasquale non lo trovano entusiasmante, a me e a Kyle piace. Sicuramente la sua forza è nella acidità che torna padrona grazie ad un contesto smagrito, ma il vino è pimpante, in buona forma, non presenta segni di cedimenti, apre con autorevolezza e chiude pulito. Rispetto alla 1999 e alla 2004 marca meno complessità ed è dunque decisamente meno seducente.
1982. Entriamo nell’era pre-metanolo. Una annata giustamente considerata grande nella quale emerge molto bene la qualità assoluta di questo vino. Cito l’integrità come nota obbligata ma so di passare per scolaretto: il naso è dominato da terziari avanzati, cuoio pieno, sentori di cenere e di tostatura, ma poi anche di ciliegia e marasca sotto spirito, punta di liquirizia, corredo piacevolissimo di rabarbaro. Ottima l’acidità, leggermente scissa dal contetso, finezza e grande bevibilità per una conclusione emozionante e appagante.
1967. Ed è a questo punto che Danilo piazza il fuori programma, coinvolto dalle chiacchiere: voglio provare con voi la 1967. Bene, penso: a dieci anni non bevevo così recupero il tempo perso. Vendemmia ottima nella classificazione ufficiale della storia del Barolo, definita convincente nel bel lavoro di Giancarlo Montaldo di recupero della memoria vitivinicola langaiola per le nuove generazioni di bevitori. Il vino in effetti è freschissimo, nessun cedimento dopo 44 anni anni, neanche depositi, il coloro è vivo e brillante, persino un po’ più denso del solito. Il naso terziario svela ancora lampi fruttati, l’impianto è retto dall’alcol, siamo quasi a 14 gradi, e dall’acidità, intensa e vibrante. Un Barolo bevibile, molto lontano dai modelli degli anni ’90 e che proprio per questo esprime un fascino irresistibile.
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