di Stefano Tesi
Fino a qualche anno fa non sapevo nulla del Bardiccio, salvo che è un insaccato cosiddetto “povero” della Val di Sieve a base di scarti di carne di maiale (cuore, polmoni, guancia, ghiandole varie, eccetera) ingentiliti, nella loro crudezza e nelle eventuali magagne, con abbondante aggiunta di finocchio. Praticamente la finocchiona dei poveri.
Me n’ero sempre tenuto alla larga anche perché aveva fama d’essere fatto pure col sangue, ingrediente che, eufemisticamente parlando, non
mi attira affatto. Sì, m’era capitato di assaggiarlo qualche volta (il bardiccio, mica il sangue eh!), ma con la tipica scarsa attenzione che presti alle cose dalle quali aspiri a separarti il prima possibile.
Devo la sua recente (ri)scoperta al mio amico Stefano Frassineti dell’osteria Toscani da Sempre di Pontassieve (qui: http://www.toscanidasempre.it/ un ristorante che, detto fra noi, merita di essere visitato).
Il quale Frassineti, con acuta fantasia, nel dicembre scorso ha unilateralmente dichiarato l’allora incipiente 2016 l’“anno internazionale del bardiccio”, inanellando una serie di iniziative di rilancio del prodotto culminate a primavera con il primo “Palio del Bardiccio” e, ora, con la pubblicazione di un interessante libello scritto da Alessandro Sarti e dedicato al misconosciuto salume, la cui produzione e consumo risultano storicamente ristretti all’area
valdisievina e dintorni.
Ora che me lo sto rigirando tra le mani penso che, come tutte le consimili pubblicazioni, anche questa è di una somma inutilità e di una somma utilità.
Vediamo perché.
Prima di tutto, il libro che non ha nulla o quasi di letterario. Anzi, proprio dicendo la verità è un pout pourrì, una raccolta di testimonianze molto eterogenee, molte foto d’epoca, ricordi, ricette (quelle raccolte in occasione del recente Palio, di cui sono stato giudice), rievocazioni, interviste.
Ma proprio per questo è anche, ai miei occhi giornalisti, una miniera di informazioni, di domande a cui trovare una risposta, di idee per fare ricognizioni, di persone da incontrare e, è naturale, di diverse interpretazioni del bardiccio da assaggiare.
Con una chicca finale, però, che è la vera ragione (insaccato in sé a parte, è ovvio) per la quale sono qui a scriverne e di cui mi illudo pure di essere un lontano ispiratore: l’approfonda ricerca lessicale messa a punto dalla brillante Matilde Paoli dell’Accademia della Crusca che, partendo dalle parole e dalle accuratissime carte accademiche sull’uso dei vocaboli sul territorio, riannoda in un affascinante racconto i fili della mobilità, dei modi di dire, del mangiare, della vita quotidiana, dell’economia domestica, degli apparentamenti gastronomici e non, della continuità o contiguità legati al bardiccio. Finendo così per tracciare un quadro sociale e geografico di cui il bardiccio stesso, per cinque secoli almeno, è stato uno dei comuni denominatori.
Al termine ti viene così inevitabilmente voglia di risalire l’Arno e andare a sentire che sapore ha questo strano insaccato che quando è fresco si arrostisce sulla griglia, quando è pronto si affetta come un salame e quando è secco si usa per insaporire sughi e pietanze.
Provare per credere (avrebbe detto anche Guido Angeli).
* foto del Bardiccio di Fabio Bernardini
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